Contro il discorso neocon: piccola confutazione di un articolo di Christian Rocca

Ciò che vi proponiamo oggi è un modesto (ma non umile) tentativo di smontare le tesi presentate dal giornalista Christian Rocca nella sua prefazione ad un saggio di Paul Berman apparso su IL, magazine del Sole24ore .
Non siamo i primi che si cimentano nel glossare un testo neoconservatore e/o xenofobo. A questo link potete trovare una dissacrante e divertente demolizione dei deliri razzisti di Oriana Fallaci compiuta un decennio fa da Miguel Martinez e Lisa Maccari; Daniele Luttazzi nei suoi libri smonta pezzo per pezzo la retorica di Giuliano Ferrara su temi come l’aborto e Renato Farina, due temi per certi versi simili.
Noi non ci sentiamo affatto superiori nè a chi ci ha preceduto nè al bersaglio della nostra critica, Christian Rocca, che il giornalista lo sa pure fare, ha una buona vis polemica (altrimenti non sarebbe un Moggiano di ferro) e conosce come pochi altri (in Italia e in Europa) gli uomini e le donne della politica e del giornalismo statunitensi.
Se tentiamo di confutare le sue tesi è perchè non le accettiamo. Non vogliamo vivere nel terrore e non pensiamo che l’ideologia islamista sia il nostro vero problema. Soprattutto, al contrario di Rocca, non pensiamo che l’eventuale minaccia sia sottovalutata, anzi pensiamo che l’islamofobia sia piuttosto in aumento nel nostro paese e in Europa. In America è già al massimo da anni.
In corsivo mettiamo il testo di Rocca, che ricopiamo perchè liberamente disponibile online. Ogni nostro commento è preceduto da un trattino tipo questo –

In 1984, George Orwell si era inventato la “Thought Police”, la polizia del pensiero (nella traduzione italiana chiamata la psicopolizia), un espediente narrativo per fornire al sistema totalitario guidato dal Grande Fratello lo strumento di coercizione più invasivo che l’essere umano potesse immaginare e sopportare: il controllo del pensiero ventiquattr’ore su ventiquattro.

Il controllo poliziesco del pensiero significava annullamento del pensiero, cancellazione dell’individuo, schiavitù. «Il Grande Fratello vi guarda», minacciavano le scritte sulle strade di Oceania. I sudditi del regime di conseguenza erano costretti a non pensare. Erano costretti ad annullarsi per evitare guai. «Si doveva vivere (o meglio si viveva, per un’abitudine, che era diventata, infine, istinto) tenendo presente che qualsiasi suono prodotto sarebbe stato udito e che, a meno di essere al buio, ogni movimento sarebbe stato visto», si legge già alle prime pagine di 1984, assieme a Buio a mezzogiorno di Arthur Koestler uno dei testi letterari definitivi sul totalitarismo.

Che cosa c’entrano George Orwell e i sistemi totalitari del Novecento con l’ideologia militante dell’Islam radicale e la minaccia alla libertà di pensiero di cui parla questo saggio scritto da Paul Berman?

-eh, infatti, cosa c’entrano?

C’entrano. Oggi, argomenta Berman, l’Islam radicale si è posto l’obiettivo politico di restringere i limiti di ciò che è consentito pensare, sia nella società occidentale sia nel mondo islamico. L’ideologia islamista e le sue squadracce non minacciano soltanto la libertà di espressione, puntano addirittura a controllare la libertà di pensiero. L’Islam radicale si è trasformato nella psicopolizia del romanzo di Orwell. Se non ce ne accorgiamo, avverte Berman, possiamo dire addio società liberale.

-Possiamo, chi? Società liberale, dove?
Ci sembra logico affermare che ogni regime autoritario ha in mente di controllare il pensiero dei suoi cittadini.
Orwell voleva parlare di OGNI regime possibile nel suo futuro. Paragonare il mondo di 1984 a UN QUALSIASI regime totalitario, come sembra fare Rocca, equivale a dire un’ovvietà. o meglio, equivale a dire una cazzata.
Perchè, vedremo più avanti, ‘l’ideologia islamista’ di cui parla Rocca non è al potere in alcuno stato sovrano, quindi è davvero stupido e inutilmente retorico paragonare la psicopolizia di 1984 alla ‘minaccia islamista alla libertà di pensiero’…
..A meno che, ovviamente, Christian Rocca non stia parlando dell’Arabia Saudita, storico alleato americano. Se così fosse, il decennale sostegno alla crudele monarchia saudita renderebbe gli Stati Uniti di Bush (esaltati da Rocca) il più grande Quisling della storia dell’Umanità.
Berman nel suo articolo parla proprio della repressione e della shari’a in Arabia Saudita, quindi sì, incredibilmente Christian Rocca sta sconfessando anni di militanza pro-Bush e si allinea coi Michael Moore più oltranzisti e obesi.

Paul Berman è un intellettuale americano liberal e di sinistra da anni impegnato a spiegare come la battaglia contro l’Islam politico è la diretta continuazione della lotta contro gli altri totalitarismi del Novecento, il nazifascismo e il comunismo. In Terrore e liberalismo (Einaudi, 2004), Berman aveva illuminato con precisione la connessione ideologica tra l’islamismo, il nazionalismo arabo e i movimenti totalitari del ventesimo secolo.

-Sottolineare l’appartenenza politica di Berman è un tentativo molto sottile e raffinato di rafforzare empaticamente l’islamofobia nei lettori di “sinistra” dell’inserto del Sole 24ore su cui è apparso questo articolo. Segniamo anche un punto a favore di Rocca: più avanti nell’articolo eviterà di sottolineare la nota melodrammatica della dichiarata omosessualità di Bruce Bawer.

A poco a poco l’attenzione di Berman si è spostata sugli intellettuali del mondo libero, in particolare quelli che non sono stati capaci di individuare nell’estremismo islamico, e nemmeno nella dittatura nazionalista di Saddam Hussein, la versione moderna della minaccia totalitaria del secolo scorso. Affrontare e contrastare sul piano delle idee questo pericolo, secondo Berman, non è soltanto la cosa giusta da fare, ma quella moralmente doverosa.

-adesso la critica di questa prefazione diventa davvero imbarazzante, imbarazzante da scrivere.
l’ ‘ideologia islamista’ di cui si sta parlando sarebbe quindi quella qaedista o quella baathista? i religiosi o i laici? oppure basta che siano musulmani?
quale delle due è ‘la versione moderna del totalitarismo’ novecentesco?
DI CHE STIAMO PARLANDO, ROCCA?
il tono della frase qui sopra è quello di un professore universitario durante l’esame di Storia del Medio Oriente alla laurea triennale, quando lo studente Rocca Christian, (fuorisede proveniente dalla lontana Alcamo, Virginia) a domanda precisa, balbetta e confonde i regimi nazionalisti laici con un non meglio identificato islamismo, rendendo quindi inutili tutte le parole finora pronunciate. 18, va, che c’è caldo..

Gli intellettuali, ha scritto Berman nel saggio del 2010 intitolato The Flight of Intellectuals (incomprensibilmente non ancora tradotto in italiano), scappano di fronte alla realtà e non assolvono il loro compito che in teoria è quello di spiegare all’opinione pubblica che cosa sta succedendo. I maître à penser occidentali vedono la minaccia di un movimento politico autoritario e totalitario che dice di agire in nome dell’Islam ma, invece di denunciare la barbarie e le intimidazioni, preferiscono fuggire dalle loro responsabilità. Stanno zitti. Rinunciano al loro ruolo. Depotenziano il dibattito. Evitano la discussione. Fanno anche di peggio: accusano i dissidenti e gli spiriti liberi di quelle società, ridicolizzano il loro coraggio. Li disprezzano, anche. Assieme a chiunque prenda le loro difese.

-gli intellettuali scappano? il più potente e famoso quotidiano italiano, il Corriere della Sera, tramite il suo direttore Ferruccio De Bortoli ha spacciato per più di un decennio ormai, e continua a farlo, le idee razziste e violente di Oriana Fallaci, la defunta propagandista razzista che è ancora lontana dall’essere dimenticata dall’ ‘industria culturale’ italiana e mondiale e norvegese..
Fa il finto tonto, Rocca? O è disinformato? O pensa che Ferruccio De Bortoli non sia un mâitre à penser?

Non è stato sempre così. Nel 1989, il mondo intellettuale si è schierato con Salman Rushdie, quando lo scrittore è stato condannato a morte dalla fatwa religiosa emanata dall’ayatollah iraniano Khomeini, ma allora non era ancora evidente la capacità di intimidazione dell’Islam politico. In nome della libertà di espressione, durante il caso Rushdie le guide morali del mondo libero si sono mobilitate a favore dell’autore dei Versi satanici. I Rushdie dei nostri giorni – da Ayaan Hirsi Ali a Ibn Warraq – sono meno fortunati. Vengono liquidati come personaggi insignificanti, ignoranti, non rappresentativi. Non valgono quanto i leader del movimento islamista che fingono di essere moderati, come Tariq Ramadan.

-Oh, beh, questo vuol dire che Rocca non ritiene Fiamma Nirenstein un’esponente del mondo intellettuale, e qui ci trova d’accordo.
Dicendo questo ci dimostra di non considerare Giuliano Ferrara un intellettuale, o Roberto Saviano, o Giovanni Sartori, tutti pubblicamente critici contro le più dure derive islamiste.
O forse il suo è l’ennesimo trucchetto propagandistico?

Secondo Berman, la ragione di questa fuga degli intellettuali è più semplice di quanto possa sembrare: «Pensano sia meglio stare alla larga da autori che definiscono provocatori, temono sia troppo pericoloso sostenerli, sono intimiditi».

-E tu, Rocca, da giornalista, sei mai andato ad un incontro pubblico dove fosse presente Vittorio Arrigoni, poi ucciso dai tuoi stessi nemici? O lo ritenevi un personaggio ‘provocatorio’ e ‘pericoloso’?

Con la polizia del pensiero a vigilare, l’intimidazione e la paura diventano sentimenti decisamente più efficaci della rabbia e dell’orgoglio di chi denuncia l’oppressione e l’intolleranza. La nuova riflessione di Berman, contenuta in questo saggio pubblicato da IL in esclusiva italiana, si concentra su un rischio apparentemente lontano per la società aperta, ma che in realtà è più pericoloso e attuale degli atti di violenza terroristica. Un pericolo di tipo orwelliano.

Berman non è solo in questa battaglia. L’editorialista dell’Observer britannico, Nick Cohen, su questo tema ha scritto un saggio dal titolo You Can’t Read This Book (dedicato a Christopher Hitchens, uno che dal caso Rushdie fino al suo ultimo giorno di vita non si è mai dato alla fuga). Cohen sostiene che non è vero che stiamo vivendo un’epoca di libertà senza precedenti, come si usa dire con un pizzico di ingenuità. Chi offende la religione musulmana, anche solo con una vignetta o con un romanzo, mette a rischio la propria vita. Il risultato diretto è l’autocensura, la fine della società aperta. A vigilare che tutto vada secondo i precetti ideologici c’è la polizia del pensiero, temibile per la sua capacità di intimidire e facilitata nel compito coercitivo dall’abdicazione dell’élite culturale.

-Polizia del pensiero? vi sembra che Forattini o Stefano Disegni o Vincino non abbiano mai pubblicato vignette contro l’islam radicale?
Daniela Santanchè è stata libera di bestemmiare in diretta tv contro il profeta Maometto, e la sua testa è ancora saldamente (chirurgicamente?) attaccata alle spalle. Tra l’altro, le oscenità da lei urlate in quell’occasione contro l’indifeso Maometto POTREBBERO DIRSI UGUALMENTE di san Giuseppe, ma nessuno lo farebbe mai in tv. Autocensura? Polizia del pensiero?
Qualsiasi predicatore della sua amata America è libero di bruciare il Corano senza pericolo (a meno che non passi un mujahidin in skateboard a rubarglielo, esponente del gruppo salafita dei Martiri di Tony Hawk).
I suoi amati marines sono liberi di invadere un paese, fare morti e prigionieri, sequestrare nelle carceri i libri sacri e bruciarli. Per poi gridare al pericolo islamista e alla polizia del pensiero se qualcuno osa avere da ridire.
Chi bombarda i civili da aerei senza pilota e brucia i libri sacri è abbastanza orwelliano per te, oppure il fatto che goda delle fondamentali libertà di fumetto e pornografia lo rende meno orwelliano?
Hai un orwellometro?

Bruce Bawer, scrittore americano in trasferta in Norvegia, definisce «nuovi Quisling» quegli intellettuali occidentali che si oppongono al dibattito sul totalitarismo musulmano e cercano di controllare la conversazione sull’Islam in modo che non offenda i suoi principi ideologici. “Nuovi Quisling” è un insulto feroce.

-sarà un insulto feroce, ma è abbastanza simile alle tesi di Breivik stesso, il quale sicuramente nel suo lussuoso carcere  leggerà e apprezzerà il testo di Berman di cui Rocca fa la prefazione. Non conosciamo l’opinione di Breivik su Quisling, ma conosciamo le sue idee sull’insidiarsi dell’ideologia islamista in europa, e avendole lette possiamo dirvi che non si discostano molto dalle idee di Rocca e di Berman.
Inoltre, le metafore e le similitudini con la Seconda Guerra Mondiale sono un abusato cavallo di battaglia retorico dei neocon. un cavallo zoppo, secondo noi, visto che la reductio ad hitlerum et similia  sta via via perdendo la sua potenza, e con essa tutti i riferimenti a Quisling, o tutte le metafore con la conferenza di Monaco che simboleggerebbe la codardia occidentale di fronte alla minaccia del giorno. (mai hanno parlato di Hiroshima, curiosamente.)

Vidkun Quisling è stato il gerarca fascista norvegese che ha governato il suo Paese con il pugno di ferro per conto dei nazisti. Quisling, insomma, è il simbolo del collaborazionismo con il male assoluto. In The New Quislings: How the International Left Used the Oslo Massacre to Silence Debate About Islam, appena pubblicato da Harper Collins ed edito da Adam Bellow, il figlio di Saul, Bawer ha replicato con veemenza a chi ha strumentalizzato la lucida follia assassina di Anders Breivik, il massacratore locale dei ragazzi di Oslo, per delegittimare i pochi critici dell’ideologia islamista.

Gli articoli di Bawer sono stati citati nel lungo e delirante manifesto lasciato da Breivik e, per questo, con una dose eccessiva di cinismo sono stati successivamente collegati all’azione omicida del solitario assassino norvegese. Da qui la passione personale, talvolta scomposta, di Bawer nel rilanciare attaccando chi ha approfittato di una strage di adolescenti per silenziare il dibattito sull’Islam.

-Abbiamo già detto che se un Quisling c’è, è G.W. Bush, col suo sostegno alla psicopolizia saudita, ma un attimo… il manifesto di Breivik è delirante? Come delirante? Breivik cita Oriana Fallaci, come fanno Rocca e Wilders e Bawer e Berman. Breivik cita Bawer, come lo cita Rocca.
Le sue azioni sono deliranti, se volete, ma se il discorso di Breivik è delirante, allora anche il discorso di Rocca è delirante.
La differenza fra Rocca e Breivik è che quest’ultimo ha ucciso di persona decine di giovani innocenti, mentre il primo naturalmente non hai mai fatto male a una mosca e ha sostenuto coi suoi articoli alcune vaste operazioni militari.
Per il resto, la pensano più o meno allo stesso modo su diversi argomenti. Ad esempio, poco prima avete letto che Rocca ha scritto della ..polizia del pensiero, temibile per la sua capacità di intimidire e facilitata nel compito coercitivo dall’abdicazione dell’élite culturale; una tesi del genere è quasi identica a quelle sostenute da Breivik nel suo debordante manifesto d’intenti multimediale, quando parla della political correctness (che impedisce di demonizzare l’islam) come forma di evoluzione del marxismo culturale, quindi sostanzialmente un segno della debolezza degli intellettuali contemporanei di fronte all’islam. Tesi di Bawer, con ogni probabilità…

Il saggio di Paul Berman è più sereno, sine ira ac studio, senza ira né pregiudizi, ma il punto di arrivo è lo stesso: la società aperta non si può permettere di ignorare la campagna globale islamista per la limitazione della libertà di pensiero attraverso l’intimidazione.

-Christian Rocca, e questo gli va riconosciuto, da quando Obama è diventato presidente ha aggiornato i lettori del suo blog riguardo ogni mossa ‘alla Bush’ da parte di Barack H. Obama, cose tipo bombardamenti, mancata chiusura di Guantanamo, aumento dei budget militari, ricerche sperimentali su nuove armi, raid aerei in paesi come Somalia e Pakistan..cose ‘alla Bush’ secondo Rocca e anche secondo noi. Il suo tentativo, riuscitissimo secondo noi, era quello di mostrare a tutti gli enthusiasts italiani del Nobel per la Pace Obama che la sua politica estera era uguale a quella di Bush, se non più aggressiva.
Con una mossa davvero simpatica e incisiva, queste notizie venivano presentate sotto l’elaborazione grafica di un volto con le sembianze di Bush E di Obama insieme, con l’ammiccante titolo that’s right.


Ora, tutte queste campagne militari cominciate da Bush e continuate da Obama si inscrivono in una una vera e propria Campagna Globale, per parafrasare la prefazione.
Se Rocca volesse davvero capire i motivi della forza di una non ben definita ‘campagna globale islamista’, dovrebbe interrogarsi sulla portata intimidatoria e sulla capacità di fuoco della campagna globale militare americana, che va avanti da più di un decennio e che Rocca ci ha raccontato in questi anni, anni in cui il suo sostegno giornalistico alla guerra americana non è mai venuto meno.

p.s.

Leggetevi, se ce la fate, l’articolo di Berman da cui la prefazione. Ci piacerebbe commentarlo ma per ora non abbiamo il tempo. Vi anticipiamo solo che Berman definisce Magdi Allam moralmente scrupoloso.

Tova Reich, My Holocaust: l’antidoto al Giorno della Memoria

Questo teatro l’hanno chiuso i nazisti..”

Davvero? E chi gli ha dato le chiavi?”

Karl Kraus

I really appreciate that Auschwitz is wheelchair-accessible..

Was it always this way, I mean, even at the time of the Holocaust?”

Tova Reich, My Holocaust

Negli ultimi anni, tanti sono stati gli episodi che hanno sollevato la discussione sui limiti che la satira deve o dovrebbe rispettare per non ferire i sentimenti di determinati gruppi etnici e religiosi.

Il caso più noto e che ha avuto le conseguenze più serie è stata la pubblicazione, da parte del giornale danese Jylland Posten di una serie di ‘vignette blasfeme’ riguardanti il profeta Maometto.

Non ci interessa parlare delle proteste (giuste o meno) scatenate dalla pubblicazione; ci interessa, per introdurre l’argomento centrale di questo paper, la risposta del governo iraniano al giornale danese: con quella che ad alcuni sembrò l’ennesima provocazione e ad altri una abile mossa politica, all’indomani dell’esplosione della “crisi internazionale delle vignette” Mahmoud Ahmadinejad indisse un concorso internazionale di vignette satiriche sulla Shoah. Alcune di quelle vignette, lungi dall’essere un semplice sfottò del dolore delle vittime dello sterminio, sono pregne di un lirismo e di un pacifismo davvero commoventi.

Per un iraniano la Shoah è stato un evento storicamente marginale su cui è possibile fare satira; allo stesso modo, un vignettista di una metropoli europea1 può reputare assurdo il precetto coranico che proibisce la rappresentazione grafica del Profeta. Questo è il valore del contesto in cui la satira viene esercitata, un argomento di cui ci occuperemo più avanti, e di cui ha parlato ampiamente Daniele Luttazzi.

Cosa succede quando, al contrario, a fare satira su argomenti tabù è un membro stesso della comunità religiosa/etnica/nazionale?

La fatwa contro Salman Rushdie o l’ostracismo israeliano verso Hanna Arendt, pur con le dovute differenze, sono due episodi che ci permettono di capire quanto gli animi di una comunità possano infiammarsi maggiormente se a sollevare questioni scomode sono persone che fanno parte “dei nostri”.

Il nostro obiettivo è capire perchè quest’ opera (il romanzo My Holocaust scritto da Tova Reich e pubblicato nel 2007), nonostante la provocazione estrema, la satira feroce e senza sconti sul più tabù degli argomenti, sia stata accolta con recensioni al 90% positive e quali siano le variabili che hanno evitato l’esplosione di un caso mediatico.

Il mio Olocausto: come ridere dei sopravvissuti di Auschwitz senza deriderli.

Il protagonista del romanzo è Maurice Messer, un anziano ebreo sopravvissuto all’Olocausto che si inventa un passato da partigiano anti-nazista per darsi un’ aura di eroismo e che (assieme al figlio Norman) presiede con cinismo la Holocaust Connections Inc., la società che gestisce i luoghi della memoria di Auschwitz e di Washington e che “concede il marchio con la H a qualsiasi Olocausto il cliente desideri”.

La sua condotta profondamente immorale, velata dal moralismo di chi è convinto di svolgere un compito immane, fa da sfondo all’azione di una serie di personaggi improbabili, le cui azioni mettono alla berlina il pietismo ipocrita di molti luoghi della memoria, di chi li frequenta e, soprattutto, di chi li gestisce.

I due lunghi capitoli del libro sono ambientati rispettivamente ad Auschwitz (descritto dall’autrice come una pacchiana e irrispettosa “sagra dell’Olocausto”) e al Museo di Washington, nell’occasione occupato con la forza da parte di un gruppo di “universalisti degli Olocausti”.

Il romanzo segue il protagonista attraverso la sua rincorsa ai portafogli di facoltosi donatori ebrei, via via seguendo le polemiche con bizzarri sopravvissuti della Shoah (ma più onesti del presidente del Washington Memorial), fino allo scontro con la variopinta truppa composta da hippie, riservisti israeliani insensibili alla Shoah, buddhisti (“cioè ebrei convertiti” sottolinea l’autrice) e da vari esponenti dei più disparati olocausti, dall’ Olocausto Tibetano a quello Palestinese, da quello Armeno a quelli degli afro-americani e dei nativi americani, in un crescendo parossistico che arriva a comprendere, e ad equiparare alla Shoah, gli olocausti dei furetti e delle balene, l’olocausto dei polli e l’assurdo olocausto mestruale con i suoi miliardi di ovuli vittime innocenti dell’accanimento della natura..

La tensione del romanzo è palpabile, l’impeto morale dell’autrice anche, e si dipana in questa lotta fra lobbysti senza scrupoli (gente che “..si venderebbe i sei milioni di morti per un posto d’onore alla cena alla Casa Bianca”) e hippie universalisti decisi a relativizzare la Shoah, cacciando gli ebrei dalle “vette inarrivibili di vittimismo” in cui questi ultimi sembrano essersi arroccati, raggiungendo così la “unicità” di tutti gli Olocausti.

Riferimenti a personaggi e avvenimenti reali all’ interno del romanzo.

Ad un lettore poco ferrato nelle questioni dell’ebraismo americano o nella storia di Israele e della Shoah, il romanzo in questione potrebbe regalare meno sorrisi e risate a squarciagola: come in molte opere d’arte, sono presenti diversi piani di lettura; noi ne abbiamo individuati almeno tre:

1.il livello superficiale, quello del semplice romanzo satirico-grottesco;

2.un secondo livello comprensibile alla maggior parte degli ebrei americani con un’infarinatura di yiddish e di letteratura ebraica (da Primo Levi a Ka-Tzetnik) e di alcuni eventi storici degli ultimi decenni;

3.un terzo livello semi-esoterico, che si basa sulle esperienze personali dell’autrice e sui suoi legami familiari. Questo livello è stato reso più accessibile al pubblico grazie ad una recensione del Jewish Daily Forward che ha svelato una piccola parte del “who’s who” dei personaggi del romanzo rispetto ad alcune persone realmente esistenti.

Il primo livello è quello più superficiale, un libro che nella prefazione di Cinthya Ozick viene paragonato alle opere più abrasive di Swift e di Orwell: forse esagerando, la Ozick sostiene che “My Holocaust è uno dei romanzi sociali e politici più penetranti, accanto al quale La fattoria degli animali di Orwell appare come un semplice piagnucolio”. Certamente si tratta di un opera che è un pugno nello stomaco per molti, ma se non si è addentro alla cultura ebraica come lo sono la Ozick e la stessa Reich, la carica eversiva perde un po’ della sua potenza.

Il secondo livello è quello più facilmente comprensibile dall’uditorio cui la Reich principalmente si rivolge, quella borghesia ebraica americana che va in vacanza in Israele e che si autodefinisce “la seconda generazione della Shoah”, ovvero i figli dei reduci dai lager, raccontati in prima persona nel graphic-novel Maus di Art Spiegelman. Una generazione nata e cresciuta nel secondo dopoguerra, un periodo storico che in My Holoaust è ben presente, vista l’enorme mole di rimandi agli avvenimenti politici e alla storia dei rapporti ebraico-americani. Come esempio di ciò, è doveroso rimarcare l’opinione dell’autrice sui veri motivi che starebbero dietro alla concessione di un terrreno federale per il Memoriale dell’Olocausto nel 1978: l’amministrazione Carter avrebbe in questo modo dato un contentino alla comunità ebraica che si era opposta alla vendita da parte americana di aerei da guerra F-15 all’Arabia Saudita, ritenuti una possibile minaccia alla sicurezza di Israele. In questo modo, Carter avrebbe “regalato agli ebrei americani l’Olocausto in cambio dello stato di Israele”2.

Il terzo livello è quello più difficilmente accessibile, e fa sì che il romanzo funga anche da resa dei conti fra la Reich e alcuni personaggi realmente esistenti, le cui caricature si affacciano nello svolgimento di My Holocaust. Vediamo a chi si riferisce:

Maurice Messer: il nauseante protagonista del romanzo sembra essere ricalcato sulla figura di Miles Lerman3, presidente del Washington Holocaust Memorial dal 1993 al 2000, nonché artefice della defenestrazione4 di Walter Reich, direttore del USHMM fino al 1994, che altri non è se non il marito dell’autrice del romanzo. Questo spiegherebbe l’acredine con cui viene dipinto il protagonista.

Monty Pincus: l’assistente di Messer, un “mail-order rabbi” senza scrupoli e col sex appeal di chi ha sofferto le persecuzioni naziste (pur essendo nato nel 1949..) secondo Gabriel Sanders del Jewish Daily Forward sarebbe ispirato allo storico, nonché ex direttore organizzativo e scientifico del USHMM, Michael Berenbaum.

Il sommo sacerdote dell’Olocausto: un personaggio che compare nel convulso finale, e che è chiamato a risolvere, col suo carisma di intellettuale sopravvissuto (e dalle esose tariffe per comparire in pubblico) l’intricatissima situazione dell’occupazione del museo, dovrebbe essere Elie Wiesel5.

Crazy Spiderman Rabbi: un personaggio che non compare mai, ma di cui i protagonisti parlano spesso. Si tratta di un rabbino che anni prima si sarebbe arrampicato sul tetto del convento carmelitano di Auschwitz per protesta contro l’indifferenza dei cristiani durante la Shoah. È un episodio realmente accaduto nel 1989, quando il convento si trovava ancora all’interno dell’area del lager (ora è stato spostato pochi metri fuori). Il rabbino in questione era Avi Weiss, molto noto per le sue posizioni ultra-sioniste nonchè fratello dell’autrice Tova Reich nella vita reale.

Ovviamente non possiamo sapere quanto l’autrice abbia attinto da altre persone reali6 per enfatizzare il racconto, la cui vena dissacrante trae linfa da episodi accaduti veramente nella vita della scrittrice, e che probabilmente le hanno fatto covare quel risentimento utile alla creazione di un’opera così dissacrante, velenosa e iconoclasta.

Le reazioni della critica

Secondo Dario Fo, il metro di paragone per misurare la bontà di qualsiasi opera satirica sta nella reazione del pubblico: più i destinatari danno in escandescenze, più la satira è da considerarsi riuscita.

Questa opinione è sicuramente condivisibile, ma non applicabile al caso di My Holocaust, visto che il 90% delle recensioni è stato entusiastico o comunque la critica è stata positiva.

Ovviamente non conosciamo la reazione dei personaggi reali messi alla berlina, ma possiamo immaginare che si sia sollevato più di un sopracciglio.

Le (poche) polemiche sulla carta stampata sono state generate dall’unica recensione negativa, scritta da David Margolick della New York Times Book Review, una delle più autorevole voci della critica letteraria a stelle e striscie, ospitata sul quotidiano della città che numera la più vasta comunità ebraica in America.

La recensione non è una vera e propria stroncatura ed oltre a sottolineare come la Reich usi i peggiori stereotipi anti-semiti sostanzialmente le imputa due peccati, considerati molto gravi: il primo è quello di aver inserito degli “Auschwitz factoids” all’interno di un libro di satira. Margolick ritiene “nauseante” dover leggere le vere prestazioni dei forni crematori del lager subito prima o subito dopo le performance comiche dei protagonisti; il secondo problema del libro sarebbe l’aver inserito i veri nomi di alcune vere vittime del nazismo, fra cui anche alcuni bambini uccisi ad Auschwitz.

Noi riteniamo questa critica debole perchè l’autrice, inserendo decine di riferimenti ad eventi storici reali, anche i più dolorosi, fa risaltare l’abuso perpetrato dai “proprietari” della memoria nei confronti delle vittime vere della persecuzione nazista.

Ad ogni modo, la Reich rispose personalmente con una lettera alla recensione di Margolick; o meglio, rispose usando uno stratagemma di sicuro effetto, facendo scrivere la lettera ad uno dei personaggi fittizi del libro7, l’ebreo sopravvissuto Lipman Krakowski, un ateo ottantenne culturista (!) e assiduo scrittore di lettere ai giornali. Abbiamo deciso di riportarne un ampio stralcio per fare capire quale sia l’idea di rispetto dell’autrice verso i sopravvissuti alla Shoa:

Stimato signor Giornalista,

[…]per questo sono venuto in America? Per sentire un ayatollah jewish boxer consegnare una piccola fatwa ebraica contro una scrittrice, dicendole ciò che può o non può scrivere a causa di ciò che potrebbero pensare i goyim?

Per sua informazione, l’autrice Signora Tova Reich conosce sopravvissuti della Shoah da tutta la vita. Noi non siamo santi. Siamo persone a cui è accaduta una cosa terribile. Mi scusi, ma non voglio che la mia fama derivi dal fatto che qualcuno abbia tentato di sterminarmi. Chiunque abbia un mezzo cervello è esausto da questo discorso “sacro” e di idolatria della vittima alle spese dei morti.

Her Holocaust: la Storia e la Memoria secondo Tova Reich

Quello che viene fuori da questa risposta (oltre ad una certa permalosità dell’autrice) è una visione storica ben precisa: i sopravvissuti della Shoah non sono le figure dolenti di martiri dei documentari à la Lantzmann, ma sono persone normalissime con i pregi e i difetti di ogni essere umano, e secondo la Reich è un vero e proprio affronto ipostatizzare8 la loro vita negli istanti in cui, in giovinezza, si sono trovati ad affrontare la barbarie nazista; qualcosa che i sopravvissuti stessi non vogliono e che è unicamente nell’interesse di chi può spremere soldi dal cosiddetto “Shoah Business”. Ciò appare chiaro dalle parole conclusive di uno dei personaggi, la nipote del protagonista fattasi suora carmelitana al convento di Auschwitz9, in uno dei pochi (ma potentissimi) momenti in cui la satira fa spazio alla riflessione,

Vago per il museo in rovina, illuminando le immagini e le icone alla luce di una candela della memoria. La ragazza che lotta per coprirsi il seno rimarrà per sempre inchiodata nel momento dopo lo stupro. Il vecchio con la barba mezza strappata rimarrà per sempre nelle grinfie dei suoi torturatori. Il ragazzino con gli occhi scuri, il berretto in testa e le braccia alzate rimarrà per sempre congelato sotto il tiro della pistola. Le rispettabili madri di famiglia grottescamente nude all’aperto in un campo sotto il cielo tremolante saranno per sempre umiliate dal nostro morboso sguardo mentre aspettano in fila di venire uccise. E aspetteranno per sempre, perfettamente consapevoli.

Da questo poetico estratto si evince il pensiero che soggiace a tutto il libro: lo sfruttamento museale e lobbystico della tragedia della Shoah ha un qualcosa di morboso, di ingiusto nei confronti delle vittime. Le raccolte fondi, le iniziative interconfessionali, il kitsch di alcune esposizioni, sono qualcosa che ormai ha ben poco a che fare col rispetto dovuto alle vittime. Tutto ciò esiste solo per soddisfare gli appettiti di fama, denaro e riconoscimento sociale di un piccolo gruppo dell’ élite ebraica10 senza scrupoli, che non a caso nel libro è rappresentata da personaggi che si inventano di sana pianta un passato da partigiani, “per sfatare il mito che gli ebrei sono andati come pecore al macello”, un trucco propagandistico, un odioso belletto biografico, che non viene smentito dagli altri reduci solo “per non dare un arma in più a negazionisti e skinhead. Se il capo del museo si è inventato tutto, allora anche le camere a gas potrebbero essere una bufala”.

La Reich vuole dire che arrivati al ventunesimo secolo bisogna lasciare in pace i morti. Questo è l’unico modo per rispettarne la memoria. Il tempo passa, e la Shoah viene affiancata da tutti gli altri olocausti, gli stermini e i genocidi dei decenni seguenti la seconda guerra mondiale, i cui rappresentanti sgomitano per ottenere un posto al sole del riconoscimento storico11.

Per chiarire ulteriormente il quadro, aggiungiamo le parole pronunciate dall’odioso rabbino Monty Pincus, un personaggio spregevole ma intelligentissimo, cui l’autrice mette in bocca uno sfogo che ben sintetizza il messaggio che Tova Reich tenta di esprimere; è una delle scene finali, in cui il rabbino se la prende con l’occupazione del museo di Washington da parte degli universalisti:

Se solo aveste avuto la pazienza di aspettare un paio d’anni, quella preziosa, piccola boutique ebraica all’interno del museo sarebbe stata costretta a differenziare i suoi prodotti a seconda dei diritti umani generali, se avesse voluto sopravvivere. Perchè l’Olocausto è finito, passè , non è più importante. La prospettiva è cambiata. Ma nei suoi giorni migliori, nei giorni in cui contava ancora, niente poteva eguagliare l’Olocausto ebraico e il suo sterminio su scala industriale. Avanti, chi poteva superarlo? Ma la questione, alla fine, è che anche l’Olocausto ebraico, con le sue camere a gas e i suoi forni, i suoi squadroni della morte e i campi di sterminio e tutte le altre attrattive feticiste, sta per essere tolto dalla prima fila per essere sepolto nelle cripte della storia assieme a tutti gli altri massacri, le atrocità e le sofferenze dei secoli passati. L’Olocausto non è più di moda, bambina;il tuo, il mio, il nostro, L’epoca della commemorazione è finita. Il passato è una storia con una fine, semplice, ordinata, falsa.

Solo il silenzio può riscattare i morti dall’ indegna appropriazione indebita compiuta dagli autoproclamatisi “difensori della memoria”.

Il valore del contesto: perchè il libro non è offensivo verso le vittime

Sono diversi i motivi per cui le polemiche non sono divampate come un incendio e per cui la critica è stata positiva in maniera quasi unanime.

Innanzitutto, il fatto che la scrittrice fosse ebrea. Nella quarta di copertina è la prima cosa che viene messa in risalto: “Da una scrittrice ebrea un feroce atto d’accusa …”

Waltz e Mearsheimer12 hanno ricordato come financo lo storico Tony Judt avesse dovuto qualificarsi come ebreo per firmare un articolo a supporto delle loro tesi comparso sul NYT, altrimenti non gli sarebbe stato pubblicato.

Come Luttazzi ha brillantemente spiegato, una semplice battuta (o, in questo caso, un intero libro satirico) muta completamente il significato a seconda di come viene detta, di chi la dice e di chi la ascolta. Questo è il valore del contesto, fondamentale per addentrarsi nella critica di qualsiasi performance satirica.

A riprova della bontà delle tesi luttazziane, ecco uno stralcio della recensione di My Holocaust apparsa sul Los angeles Times, che affronta in pieno l’argomento del contesto: gli ebrei possono ridere più liberamente dei goyim

Mi sono trovata a ridere a squarciagola mentre leggevo il libro al ristorante, attirando l’attenzione di un cameriere. Poi mi sono detta ‘Ehi, io posso ridere di questo libro, visto che sono per metà ebrea!’

Un altro scudo che ha evitato le critiche è l’introduzione al romanzo scritta da Cinthya Ozick, la voce della coscienza dell’ebraismo americano. Un segnale ai lettori per dire: potete fidarvi della buona fede della Reich, lo certifica un autrice che ha scritto varie opere in ricordo delle donne della Shoah, quindi al di sopra di ogni sospetto.

Questi due fattori non sarebbero bastati, però, senza la bravura dell’autrice nel dissacrare senza alcuna pietà gli atteggiamenti, le abitudini, le debolezze e i passi falsi del mondo della borghesia ebraica americana, e, più in generale, i limiti e le contraddizioni della political correctness.

La Reich nella sua satira offre un validissimo esempio di grottesco letterario: al contrario dell’ironia (che lavora per sottrazione), il grottesco agisce per addizione di particolari inverosimili che fanno scattare la risata.

La scelta di affrontare in questo modo un argomento così scottante e così difficile da maneggiare ci è sembrata la più felice: agli abomini della Storia, Tova Reich ha risposto con una fiction ancor più abominevole, che serva da catarsi per tutti quegli esponenti del popolo ebraico che sfruttano i corpi, le ossa, le ceneri, addirittura i capelli appallottolati dei defunti prigionieri di Auschwitz al solo fine di arricchirsi e fare affari.

Oltre ad essere riuscita nella forma, abbiamo visto come quest’opera contenga una profonda riflessione sul significato della Storia e del Ricordo.

In conclusione, possiamo affermare che l’autrice è riuscita a scrivere un libro lacerante, commovente (per le risate e per la crudezza) e per nulla offensivo verso le vere vittime della Shoah.

Il rispetto verso le vittime emerge da sotto una scorza spinosa, sia attraverso la bravura con cui Tova Reich ha scelto le frecce da scagliare col proprio arco satirico, sia per la provata appertenenza dell’autrice allo stesso mondo etnico e culturale descritto in My Holocaust. Se le stesse identiche battute dissacranti presenti nel libro venissero pronunciate da un naziskin o da un negazionista suonerebbero vergognosamente razziste13; ma Tova Reich ha sentito ugualmente l’urgenza di scriverle ed è stata in grado di spingersi oltre i limiti per esprimere uno sdegno morale, un sentimento profondo di rispetto per le ceneri attraverso un kaddish farsesco di cui si sentiva davvero la necessità.

BIBLIOGRAFIA

libri:

T. Reich Il Mio Olocausto, Feltrinelli, Milano 2008.

P. Dogliani, Tra Guerra e pace, Unicopli, Milano 2001.

S. Waltz, J. Mearshmeier, La Israel Lobby e la politica estera Americana, Mondadori, Milano 2007.

T. Segev, Il Settimo Milione, Mondadori, Milano 2001.

I. Zerthal, Israele e la Shoah, Einaudi, Milano 2007.

P. Novick, The Holocaust and American Life, Haughton Mifflin Harcourt, Boston 1999.

articoli:

David Margolick, My Holocaust, recensione uscita sulla New York Times Book Review del 27 Maggio 2007.

M.J. Bukiet, Of Mockery and Memory, sul Washington Post dell’8 Aprile 2007.

C. Mazza Galanti, Il mio Olocausto e la mercificazione della Shoah, su Alias, supplemento culturale del Manifesto,del 19 Aprile 2008.

G. Sanders, The greatest Shoah on Earth, sul Jewish Daily Forward del 23 Marzo 2007.

E. E. Heltzel, Risky Holocaust satire targets Political Correctnes, sul Seattle Times del 20 Aprile 2007.

T. Ison, Holocaust 4 sale, su L.A. Times dell’ 8 Aprile 2007.

S. Pollak, Our Holocausts: Aren’t we all victims, really?, su Jewish Literary Review del 22 Maggio 2007.

Un’ulteriore panoramica sulle recensioni positive a My Holocaust è reperibile sul sito della Russoff Agency al link seguente:

http://www.rusoffagency.com/authors/reich_t/myholocaust/my_holocaust_reviews.htm

Per quanto riguarda il tema della satira e del valore del contesto in cui viene esercitata, fondamentale è stato lo studio del breve saggio Mentana a Elm street di Daniele Luttazzi, consultabile online e presente all’interno del libro La Guerra Civile Fredda, Feltrinelli, Milano 2010.

Note:

1Poche le eccezioni: in Italia, gli unici due vignettisti che si sono sottratti all’unanime coro in difesa dei vignettisti anti-islamici sono stati Vauro Senesi e Pat Carra, adducendo motivazioni articolate. Nel recente caso delle vignette blasfeme pubblicate dal giornale francese Charlie Hebdo, la cui sede è stata devastata dal lancio di molotov, a parte loro due, tutti i disegnatori satirici, da Giorgio Forattini a Stefano Disegni, hanno espresso graficamente solidarietà al giornale francese. Fonte: SATURNO, allegato de Il Fatto Quotidiano dell’ Ottobre 2011.

2Il museo venne infine inaugurato il 22 Aprile 1993. A tal proposito, si vedano le polemiche riguardanti l’inaugurazione del museo riportate in P. Dogliani, Tra Guerra e Pace. Memorie e rappresentazioni dei conflitti e dell’Olocausto nell’Occidente contemporaneo, Unicopli, Milano 2000, pagg. 170 – 175

3Lerman, oltre ad essere stato il presidente dell’istituzione dal 1993 al 2000 fece parte del board di saggi che dal 1979 al 1993 si occuparono della creazione del Museo. Va ricordato soprattutto il fatto che Lerman abbia presieduto la raccolta fondi A campaign to Remember. Le donazioni da lui raccolte sono state la base economica per le acquisizioni e la realizzazione del USHMM.

4Segnatamente, Walter Reich dovette dimettersi dopo una disastro nelle pubbliche relazioni del museo, ossia quando si diffuse la voce di una possibile visita di Yasser Arafat al museo di Washington nel 1994. Bastò questo rumor a scatenare vivacissime reazioni contro la visita di una “assassino del popolo ebraico” all’interno di un museo che ne ricorda le vittime. Sembrerebbe però che la voce fosse stata messa in giro da Lerman, per favorire la cacciata del rivale Reich, marito di Tova, che pagò per tutti. Fonte: G. Sanders The Greatest Shoah on Earth, sul Jewish Daily Forward del 23 Marzo 2007, articolo presente al link seguente:http://www.forward.com/articles/10377/#ixzz1gcfiqCH3

5Wiesel fu tra i principali supervisori della raccolta fondi e della nascita dell’istituzione museale di Washington. Cfr. P. Dogliani, op.cit, pag. 177.

6In seguito agli studi preparatori per questo articolo, ci sembra possibile identificare nel personaggio di Henny Soskis la sopravvissuta realmente esistente Gerda Weissman-Klein. Inoltre, oltre ai personaggi reali, sappiamo che molti dei personaggi messi in scena nel libro erano già comparsi in un altro romanzo della Reich, Mara, uscito nel 2000.

7La lettera di Krakowski è preceduta da una breve introduzione della stessa autrice, che recita: Quella che segue è una lettera che ho scritto in risposta alla recensione del mio romanzo, My Holocaust. La lettera è scritta con le idee di uno dei personaggi minori del romanzo, Lipman Krakowski, che vede sé stesso, tra le altre cose, come un veterano scrittore di lettere ai giornali.. Credo che la recensione fosse del tutto sbagliata e sorprendentemente ad hominem, che non mostrasse nessuna comprensione di cosa sia la fiction o la satira, che fosse notevolmente all’opposto con le molte altre recensioni positive, e che abbia lasciato i lettori con una profonda e immutabilmente distorta impressione del mio libro. Tova Reich. Ricordiamo che lo stesso espediente viene usato spesso da Antonio Ricci, che è solito fare firmare al Gabibbo in persona le risposte alle critiche negative.

8È  probabile che la Reich sia stata influenzata dalle riflessioni della studiosa americana Deborah Lipstadt sul concetto di “vittime perpetue” che rischia di emergere dal museo di Washington. Cfr. P. Dogliani, op. cit.

9Si parla di lei, Nechama Messer, come di una “ereditiera dell’Olocausto” che rifiuta il patrimonio per diventare cattolica, e difendere quello che a suo dire è il nuovo Olocausto, quello dei cristiani.

10Come sostiene Peter Novick, “L’evoluzione dell’Olocausto in USA è stata soprattutto il risultato di una serie di scelte fatte dalla comunità ebraica americana circa la relazione da tenere con la memoria. In pratica, queste scelte sono state fatte dai leader della comunità, e tacitamente ratificate dalla base”. In P. Novick, The Holocaust in American Life, pag. 280.

11In questo campo, ci sembra opportuno sottolineare i tentativi goffi e irrispettosi del presidente francese Sarkozy: prima la grottesca proposta di gemellare i bambini francesi uccisi dal nazismo coi piccoli martiri della Shoah; in questi giorni, la proposta di vietare per legge il negazionismo sul Genocidio Armeno del 1915, una forma di ‘legislazione della storiografia’ con la quale chi scrive si trova in profondo disaccordo.

12J.J.Mearsheimer, S. M. Waltz, La Israel Lobby e la politica estera americana, Mondadori, Milano 2007, pag. 214.

13Cosa che puntualmente si è verificata: l’introduzione e una sintesi del libro, totalmente estraniati dal contesto originale, sono stati pubblicati sul sito neonazista http://www.aaaargh.fr