Analisi dello sketch di Luca e Paolo sui due marò: i difetti del politicamente corretto.

marooo

Non abbiamo visto neanche un minuto di Giass di Antonio Ricci, quindi non possiamo esprimere giudizi sulla trasmissione di Canale 5. Però abbiamo visto il video dello sketch sui due marò che ha sollevato tante polemiche, e abbiamo deciso di fare notare i (tanti) difetti e i (pochissimi) pregi di questa scenetta.

Noi pensiamo che si possa fare satira su un argomento del genere ma che ci vuole una grande abilità, e il tipo di satira satira scelto da Ricci ha avuto effetti comici meno che mediocri. Ma procediamo con calma.

Innanzitutto, gli autori hanno sapientemente fatto girare le foto e le indiscrezioni da giorni prima, per creare l’effetto attesa. Una mossa riuscita brillantemente se giorni prima della messa in onda erano già migliaia i messaggi di insulti su internet contro Luca e Paolo per aver “indegnamente preso in giro i NOSTRI marò”.

Poi uno vede lo sketch e si rende conto che non sono i marò a venir presi in giro, ma i politici “incapaci di riportarli a casa”. Il fatto di toccare un tema così sensibile aveva fatto scattare l’orgoglio dei patrioti online che avevano criticato la scenetta prima di rendersi conto che in realtà Ricci e i due comici erano a favore dei marò.

Qualcosa del genere accadde anni fa con la famosa puntata di South Park su Maometto: anche lì per creare l’attesa vennero diffuse notizie prima della messa in onda che causarono polemiche planetarie e violente, e anche lì lo sketch era in realtà abbastanza rispettoso e, pur annunciandolo ripetutamente, non mostrava realmente il volto del Profeta. Ma le affinità tra i due sketch finiscono qui, visto che la satira di Parker e Stone era potente e raffinata mentre quella di Ricci nel caso in questione è quanto di più facile e banale si possa mettere in campo sull’argomento.

Qua potete vedere il video.

Il presupposto di questo sketch è questo: se i due marò stanno ancora in India, la colpa è dei politici, non dei marò. I due marò sono vittime dei vari Gasparri e politicume vario che si fa bello andando a trovarli ma che non è in grado di riportarli a casa.

Nello sketch di Ricci i due marò sono vittime, e i politici sono carnefici.

Un presupposto inaccettabile per una scenetta comica, visto che è falso.

Se i due marò si trovano in India la colpa non è certo di Gasparri, ma di chi ha ammazzato due innocenti pescatori.

Ricci non fa riferimento al fatto che due persone sono morte, preferisce scegliere la via più semplice dipingendo i due Marò come vittime dell’incapacità di politici (La Russa e Casini) e uomini di spettacolo Rai (Vespa, Giletti e la Carrà).

La colpa della situazione è “di un governo che non fa un cazzo per me”.

Cerchiamo di capire cosa ha spinto Ricci a prendere una posizione del genere.

Con questo programma Ricci si proponeva di fare una satira “contro il politically correct“. Usare i due marò per una scenetta comica va letto come una come atto in sè provocatorio, al di là degli effettivi contenuti che invece sono tutt’altro che irriverenti e anzi si appoggiano sul pensiero dominante che vede i “poveri marò” come vittime di un’ingiustizia e non come presunti assassini in attesa di giudizio. Se voleva adare realmente contro il politically correct imperante del nazionalismo da Domenica In, Ricci avrebbe potuto fare un riferimento alle vere vittime di questa storia, cioè i due pescatori ammazzati.

La verità è che Ricci ha scelto la strada più comoda: annunciare in anticipo la burla ha fatto sì che gli utenti dei social network filo-marò si indignassero, raggiungendo così preventivamente il risultato della tanto agognata scorrettezza politica, in questo caso totalmente fine a sè stessa visto che lo sketch, come abbiamo visto, era totalmente a favore dei due Marò.

Non mettiamo in dubbio l’ipocrisia di molti personaggi pubblici sui due marò, qui sbertucciata da Ricci.

Ma è troppo comodo usare questi dettagli per far ridere, non è niente di più che uno stereotipo abusato, la satira non è per niente graffiante anzi è qualunquista, visto che incolpa la Kasta anche quando, per una volta, non ha colpe.

La verità è che Ricci sperava di raggiungere l’effetto desiderato unicamente con la scelta del soggetto-tabù e non tramite la qualità della satira.

Intendiamo dire che il solo fatto di scegliere un argomento-tabù per fare satira non fa di te un vero provocatore, se poi il modo in cui affronti tale argomento-tabù è scontato, conformista e per niente graffiante. I due marò (che nella realtà sono accusati di un duplice omicidio per il quale lo Stato Italiano ha già deciso di risarcire le famiglie dei pescatori uccisi) sono le vittime scelte da Ricci per prendere in giro i politici italiani. Non riusciamo a pensare a niente di più banale e politically correct.

Ricci con questa scenetta ha fallito tre volte: da un punto di vista satirico visto che lo sketch non fa ridere; da un punto di vista delle intenzioni, visto che il politically correct non è stato abbattuto anzi è stato pienamente abbracciato; da un punto di vista degli ascolti, visto che tutta l’attesa generata ha influenzato negativamente gli spettatori che hanno abbandonato Giass al suo destino.

LE RIVOLTE DEGLI ALTRI

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“La verità è che ci vorrebbe una bella rivoluzione. Ma di quelle fatte bene, con le armi e tutto”.
Questa frase è stata pronunciata – in presenza di testimoni- da un’insulsa signora di mezza età, davanti al bancone di un salumiere. E’ chiaro, però, che quelle parole le avrebbe potute pronunciare chiunque. Ma proprio chiunque.
 
Invocare una rivoluzione è uno dei tormentoni più trasversali che esistano, nel nostro paese. Non ha importanza che si tratti di dirigenti, operai, impiegati, disoccupati, giovani, vecchi, ricchi, poveri, bianchi, neri, bancari, banchieri, calciatori, barboni, sardi, commercianti: la voglia di rivoluzione sta bene in bocca a chiunque.  L’importante, comunque,  è che siano gli altri a ribellarsi, e infatti di questo ci occuperemo. 
 
Tralasceremo volutamente ogni discussione sul populismo, sui luoghi comuni, sulla chiacchiera da bar.  Meglio sorvolare anche sul fatto che, spesso, a invocare una rivoluzione siano individui a cui tutto converrebbe tranne che trovarsi in un paese in rivolta.
 
E’ più interessante concentrarsi su un altro aspetto, ovvero su come, date le scarse probabilità che si verifichi un episodio rivoluzionario in Italia (visto anche che nel nostro paese “ non si può fare una rivoluzione perché ci conosciamo tutti”, come diceva qualcuno – Longanesi o Missiroli), ci si attacchi disperatamente alle sollevazioni e alle sommosse popolari che avvengono all’estero.
 
Non ci riferiamo tanto all’interesse mediatico – quello è inevitabile, trattandosi di fatti di effettiva rilevanza mondiale – quanto alla voglia irrefrenabile di schierarsi idealmente (e tramite social network) al fianco dei ribelli, siano essi ucraini neonazisti, khomeinisti moderati, arabi primaverili, brasiliani contrari agli sprechi. Perfino degli innocui spagnoli indignati vanno bene. 
 
La piazza della capitale che si riempie di gente con le bandiere, gli scontri, la caduta di un regime, le statue abbattute, la fuga all’estero dei dittatori: degli evergreen meritevoli di una busta grande di popcorn.
Gli italiani condividono, e mettono “mi piace”. E cambiano le foto del profilo.
 
La cosiddetta primavera araba del 2011, per esempio, è stata salutata con un’enfasi degna di un poema epico, trasformato in una farsetta (non certo per il soggetto principale; quello, purtroppo, era tutt’altro che una farsa), con tanto di articoli e autorevolissimi commenti  sulla “rivoluzione via twitter”, del “ruolo centrale dei social network”, nella speranza che le onde del Mediterraneo trasportassero i fervori rivoluzionari da una sponda all’altra. 
 
A scanso di equivoci, gentaglia come Ben Ali, Gheddafi e Mubarak meritava ampiamente, a nostro avviso,  di essere cacciata.
 
Ma il punto è un altro: è possibile che degli avvenimenti così rilevanti e così delicati debbano essere sintetizzati con quattro foto di ragazze con il viso dipinto con i colori nazionali e con articoli, post e tweet mistificanti e superficiali? 
 
Il comportamento degli “osservatori partecipanti” italiani consiste sostanzialmente nel godersi la festa rivoluzionaria, ignorandone le conseguenze; un po’ come gli studenti di un noto liceo delle nostre parti, i quali, delusi dalla presunta inokkupabilità della loro scuola, andavano a fare bisboccia nella scuola vicina – quella sì, okkupata – sapendo benissimo che l’indomani non sarebbe toccato a loro raccogliere i cocci della nottata. 
 
Le esultanze per le rivolte nordafricane, ovviamente, non lasciavano spazio alle riflessioni sui possibili scenari futuri. E infatti, con le prime elezioni libere, e con l’instabilità  cronica successiva alle rivolte, è arrivata puntuale la delusione per la vittoria elettorale di formazioni politiche vicine all’islamismo radicale. 
 
Poi ci sarebbe pure una serie di attentati terroristici  -vedi Egitto – con decine di morti a botta, di cui però a un certo punto non frega più niente a nessuno. Di sicuro però non ci si esalta più. Al massimo, ci si resta quasi male. 
 
Una cosa del tutto simile sta avvenendo rispetto alla crisi ucraina: si gioisce per la caduta di Yanukovich – un farabutto, né più e né meno – e per la liberazione di Yulia Tymoshenko – sulla quale conviene sospendere ogni giudizio. Si può concordare sul fatto che nessuno meriti di stare in carcere per motivi politici.
La Russia di Putin ha successivamente invaso la Crimea, come tutti sanno, “per difendere i cittadini di etnia russa”, numericamente in maggioranza, che vi abita. 
Ovviamente, nessuno ha più voglia di esaltarsi per una cosa simile.
 
Sia chiaro: non vogliamo in alcun modo difendere Yanukovich, né tantomeno il delinquenziale Putin.
Magari la gravità della situazione e dei personaggi in gioco avrebbe richiesto, fin dall’inizio, meno commenti superficiali sui media e social network.
 
Un minimo di indulgenza andrebbe concesso, però, a chi si esalta per lo scoppiare dei tumulti in casa altrui. La loro frustrazione di fondo va capita, detto senza ironia. Il nostro è, a conti fatti, il paese delle quasi-rivoluzioni, delle rivolte scongiurate all’ultimo momento; è il paese dei Forconi. 
E’ lo stesso  paese in cui i leghisti, da anni, vaneggiano a proposito di cittadini del nord pronti alla guerra (“se ci incazziamo noi non si sa come va a finire”), di bergamaschi armati richiamati all’ordine da Bossi in persona; è anche il paese in cui un comico – a cui è stata delegata gran parte di questi pruriti eversivi –  si vanta di aver salvato l’Italia da Alba Dorata e da ciò che ne sarebbe conseguito, catalizzando il malcontento e trasformandolo in consenso per il suo movimento.
 
E’ comprensibile, in fondo, che questa incompiutezza eterna generi la voglia di esultare per chi, da qualche parte nel mondo, si sta ribellando sul serio. Magre consolazioni.
 
A questo punto, non resterebbe che fare una rivoluzione. Ma di quelle fatte bene, con le armi e tutto.

Una preghiera per Totò Riina

Un anno fa un giudice ha negato ad un detenuto malato il diritto di potersi curare in clinica.

Oggi quel detenuto sta malissimo ed è stato trasportato all’ospedale in condizioni gravissime, stando alle ricostruzioni giornalistiche.

Siamo di fronte all’ennesima barbarie del sistema carcerario italiano.

Tutta Italia spera che il detenuto muoia, ed è intimamente d’accordo con la decisione del giudice di negargli il diritto alla salute.

Noi vi invitiamo a pregare per quel detenuto, affinché si rimetta, anche perché una sua morte in queste circostanze sarebbe un ulteriore simbolo della malvagità istituzionale del sistema penale italiano.

Gente come Travaglio e tutti i suoi accoliti da decenni strepita ogni qual volta si parla di indulto o di misure più umane di detenzione. Questa gente, il Fatto Quotidiano in primis, ha segnato l’imbarbarimento morale e civile degli italiani in generale e di una parte della sinistra in particolare.

Ricordiamo che due decenni fa, quando il clima culturale era leggermente più salubre, quando Falcone e Borsellino non erano due santini ma due persone che potevano anche essere criticate, bene in quei tempi si parlava del 41 bis come forma di tortura; si dibatteva se un paese civile dovesse o meno accanirsi così sui criminali, e se misure del genere fossero o meno un deterrente al crimine.

Oggi è considerato quasi troppo poco; ma sono circa vent’anni che gente come Travaglio e Di Pietro e Grillo martellano le menti degli italiani, quindi non ci stupiamo di niente.

(Travaglio in alcuni articoli si lamenta della chiusura delle carceri di Pianosa e dell’Asinara, dei dungeon ottocenteschi che neanche il Conte Dracula avrebbe il cuore di usare. Ma stiamo parlando del Fatto quotidiano, al cui confronto i vampiri sono fior di democratici).

In un’Italia che non si ritiene in grado di rieducare i criminali, noi tentiamo di mantenere un briciolo di umanità o, per chi ci crede, di carità cristiana, e preghiamo affinché un povero vecchio assassino trovi la pace, in questo mondo o in quell’altro. Più probabilmente nell’aldilà, dove non avrà a che fare con inquisitori così sadici.

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