Bisogno Primarie

Un blog che porta il nome del glorioso corso d’acqua panormita dovrebbe, o perlomeno potrebbe dire la sua sulle imminenti primarie di non si sa cosa in vista delle elezioni amministrative a Palermo.

Si potrebbe fare un prestigioso endorsement.

Si potrebbe affermare che è il solito teatrino.

Si potrebbe sottolineare che tutta questa acrimonia fa male, prima ancora che al centrosinistra, alla città di Palermo tutta.

Si potrebbe insinuare che chi aveva ottime intenzioni, adesso viene appoggiato dalle persone sbagliate.

Si potrebbe lasciare intendere che la Sicilia, e in particolare Palermo, se ne infischia delle dinamiche partitiche a livello nazionale, oppure che le precorre.

Si potrebbero sprecare le battute sul Partito Democratico e sulla sua irrinunciabile vocazione alla sconfitta.

Si potrebbe puntare il dito contro la litigiosità inconcludente dei quadri isolani delle altre formazioni in gioco.

Si potrebbe insistere con le solite litanie e salmodie qualunquiste, per cui tanto non cambierà mai nulla.

IlFiumeOreto non farà nulla di tutto questo.

Perché a noi in fondo, delle primarie, non c

ALWAYS COCACOLLA. #BOICOTTACOCACOLLA.IT

Twitter per certe cose è davvero un merdaio, un merdaio nel senso letterale.
Nei merdai, ossia negli spazi adibiti a deposito di feci, proliferano virus e schifezze che, in condizioni igienico-sanitario precarie, vedono il diffondersi di ogni agente patogeno e possono portare alla creazione di epidemie.
#supportcocacolla è una di queste, un piccolo agente patogeno semi innocuo che sguazza e prolifera in una latrina culturale.
Un breve riassunto
Un sito di “creativi” italiani sceglie come nome cocacolla.it.
La Coca Cola Company chiede di oscurare il sito,
cocacolla.it lo oscura in maniera spettacolare e rumorosa, servendosi dei social network per pubblicizzare il loro sito semi oscurato e la richiesta di chiusura.
L’odio verso la multinazionale dei soft drinks per i suoi metodi criminali porta molti utenti a supportare il piccolo sito che ispira simpatia, in un’ ottica chiaramente influenzata dal racconto biblico di Davide e Golia.
Se avete aderito in massa coi vostri click alla causa dei creativi di cocacolla.it, spalleggiati da repubblica.it et similia, forse lo avete fatto spinti da un sincero odio contro le multinazionali e contro la proprietà intellettuale (una sola lettera di differenza, suvvia! dicono i creativi nel loro disclaimer).
Bene, questa avversione alle corporations NON è condivisa per niente dal sito che grida alla censura:
cocacolla.it ha pubblicato un post in cui uno dei fotografi creativi riceve un paio di scarpe dalla megamultinazionale tedesca ADIDAS da fotografare, riprendere,montare, insomma, da gestire in maniera creativa e adatta al mercato giovanile.
Il giovane fotoreporter creativo, oltre a informarci di quanto sono fighe le scarpe ricevute come omaggio, sceglie come colonna sonora del video un pezzo del duo catanese blatta e inesha, note che hanno risuonato nei centri sociali antagonisti in tutta Italia e che ora, loro malgrado, vengono utilizzate per una pubblicità di una multinazionale che punta dritto al target dei giovani alternativi.
Insomma, come sempre, il nemico marcia alla testa..
cocacolla.it pubblicizza in maniera subdola la multinazionale adidas, con il linguaggio dell’arte e della comunicazione giovanile (seppur già patinata). E poi viene a chiedere il vostro sostegno morale e di conseguenza il vostro click contro la soverchieria del gigante sugli artisti precari creativi.
I creativi, che probabilmente sceglieranno un altro nome per i loro sito  ..focused on art, design, advertising, urban culture, new trends  (suggeriamo Piselli re franchising) hanno ottenuto il massimo di esposizione mediatica e della simpatia della comunità virtuale con il minimo sforzo, lo sforzo di stare qualche ora seduti, eccitatissimi, a postare in giro per il web la loro triste storia di martirio digitale..
I loro schiamazzi hanno raggiunto anche orecchie straniere, e Robin Wouters dice chiaro e tondo che “.. the bloggers did exactly what bloggers will do in such cases: complain publicly and try and drum up interest for their cause on the Internet. ”
Insomma, non è tutto oro quel che luccica, e detestando la condotta di ogni corporation detestiamo anche cocacolla.it in quanto subdoli propagatori di messaggi consumistici attraverso il linguaggio delle controculture giovanili.
Quindi, chi detesta la CocaCola dovrebbe detestare anche  i furbi creativi pubblicitari di cocacolla.it, che non hanno alcun diritto di presentarsi come vittime del sopruso dei potenti in quanto lavorano per i giganti dell’industria di abbigliamento sportivo.

RADICAL CHIC RA VUCCIRIA ITIVINNI A ZAPPARE

Questa foto è stata (malamente) scattata alla Vucciria, nei pressi di piazza Garraffello.
Per chi non conosce Palermo, piazza Garraffello si trova nel quartiere della Vucciria, un mercato storico antico di secoli. Fino a una decina d’anni fa era frequentatissimo, le persone si accalcavano nei vicoli tra teste di pesce spada, maiali squartati, erbe di campo et cetera, con il sottofondo delle abbanniate, una prosodia urlata con cui i putiari pubblicizzano la propria mercanzia. Queste urla e le disordinate masse umane hanno fatto sì che il termine “vucciria” entrasse nel lessico dei palermitani come sinonimo di confusione.
Al giorno d’oggi il mercato  continua a resistere ma, purtroppo, versa in uno stato semi-comatoso. Ciò è un effetto della sciagurata gestione Cammarata, che ha aumentato l’affitto e il costo della licenza per i negozi nell’ambito della “valorizzazione” del patrimonio immobiliare del centro storico, cui è conseguito un aumento forzato dei prezzi di carne pesce frutta e verdura. Al contrario degli altri mercati storici del Capo e (soprattutto) di Ballarò, la gente non va più in massa a fare la spesa alla Vucciria. I consumi si sono limitati, e si interrompe sempre più spesso la secolare attività familiare a causa dei costi troppo elevati.
A dire la verità, la frequentazione rimane massiccia, ma l’orario si è spostato in avanti: ogni giorno, verso le 19 – 19.30 negozi e bancarelle di alimentari si apprestano a chiudere; al contrario, le taverne cominciano ad affollarsi, nel fine settimana da piazzetta Caracciolo lungo tutta la via Argenteria e piazza Garraffello fino a via Chiavettieri (notare la toponomastica legata ai mestieri) la “Movida Palermitana si colora fino alle luci dell’alba.”
Nella “città più cool d’Italia” le persone che frequentano queste vie settecentesche, adorne di capolavori dell’arte come la statua del Genio di Palermo, la fontana cinquecentesca del Garraffello, la chiesa di Sant’Eulalia dei Catalani*, è in buona parte composta da studenti, lavoratori e nullafacenti, provenienti dai quartieri residenziali della medio-alta borghesia**, che vanno a bere e a socializzare nel quartiere. Per socializzare intendiamo anche mangiare interiora di agnello accanto ad un cassonetto maleodorante di fronte ad un palazzo bombardato dagli americani nel 1943 e mai ricostruito, con la musica reggae a fare da colonna sonora a questa architettura da Ciprì e Maresco.

Veniamo dunque a questa scritta.
Dobbiamo dire che la redazione ha cominciato a interrogarsi sul reale significato di queste parole, prendendo in esame varie ipotesi sul chi e sul perchè. Il dove e il quando li sappiamo già.
La scritta farebbe pensare, inizialmente, ad un fastidio da parte degli abitanti del quartiere verso gli avventori notturni: gente che ha tanti soldi da spendere, e passa la notte a urlare e orinare sotto i portoni, mostrando scarso rispetto per un posto in cui si è, comunque, ospiti. E’ possibile che ci sia anche un sottofondo di odio di classe: i radical chic, possiamo presumere, siano i giovani ricchi aspiranti bohemienne, con i pantaloni strappati, i piercing e uno smartphone da cinquecento euro in tasca; la Vucciria è un quartiere popolare che paga la crisi più di altri e in cui c’è la solita cronica mancanza di servizi palermitana.
Da un altro lato, i rumorosi ospiti sono comunque una fonte di reddito, le loro tasche e i loro portafogli si svuotano quotidianamente sui banconi dei vari bar, taverne e bancarelle, quindi un indotto si crea.
Ciò che non convince è la grafia: sembra una grafia influenzata da un passato da writer, non da un passato da stigghiolaro. Quindi, pur non volendo fare una grafologia forense lombrosiana, saremmo indotti a pensare che chi scrive così possa aver quantomeno frequentato qualche rapper upperclass.
Inoltre, bisogna riflettere sul significato di “radical chic ra vucciria”: chi è costui? gli studenti, i giovani artistoidi della medio-alta borghesia che approfittano degli affitti bassi e si installano in un quartiere centrale e popolare come la Vucciria, oppure chi frequenta il quartiere in notturna, mostrando scarso rispetto? O ci sono altri riferimenti a noi oscuri? Probabile.
Insomma, non essendo venuti a capo di questo rompicapo, lanciamo due ipotesi, sperando che chi ne sa di più si faccia avanti:
Le due ipotesi sono definibili “andreotti” e “occam”
Andreotti diceva che a pensar male si fa peccato ma spesso ci si azzecca, quindi potremmo dire che la grafia nasconde che si tratta di una provocazione, architettata da qualche lupo solitario in vena di scherzi, e che quindi non rappresenta il reale sentimento del quartiere.
Occam era un frate, e diceva che non bisogna mai presupporre più del necessario: quindi, visto che alcuni motivi di risentimento ci sono, questa scritta è indice del malcontento di un quartiere che dopo secoli rischia di cambiare destinazione d’uso, da mercato a centro di svago notturno dei giovani di tutta palermo.
Voi che ne pensate?

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*Sede dell’Istituto Cervantes, visitato persino da quel ragazzone del principe di Spagna Felipe, che credo abbia ancora una giurisdizione territoriale all’interno della Chiesa, eretta dai suoi antenati sovrani a Palermo.
**Questo è l’approccio con cui una band palermitana accompagna una rivista musicale italiana attraverso la Vucciria in notturna in un articolo apparso qualche anno fa. Un reportage che, nella parte in cui si parla specificamente del quartiere, ha un approccio totalmente sbagliato, nascondendo sotto il tappeto i drammatici problemi e dipingendo la Vucciria soltanto come un paese dei balocchi decadente per giovani metrosexual. Cosa che in parte è vera, ma che esclude la realtà della vucciria nelle 24h, focalizzandosi solo nel periodo dalle 22 alle 4 del mattino. Un giornalista avrebbe potuto e dovuto interessarsi meglio.

Ancora sui partigiani sinti

Oggi Paolo Canipari ci ha mandato questo messaggio:

Sono presidente dell’ANPI di Salò. Mi interesserebbe approfondire la storia dei Sinti partigiani che hanno operato nel Mantovano,

Tutto quello che noi sappiamo sui partigiani sinti lo abbiamo appreso dal libro Strada, patria sinta di Gnugo De Bar, un libro bellissimo ma difficile da reperire perchè stampato in poche copie su un progetto editoriale del Comune di Modena.

Se possiamo essere d’aiuto a lei e a chiunque nella vostra zona sia interessato, in Lombardia il libro è reperibile a Bergamo e a Redona (BG). Ecco i link alla collocazione del libro nel sistema bibliotecario della Lombardia e in quello della Provincia di Bologna, che è un po’ più ricco di copie.

http://www.biblioteche.regione.lombardia.it/OPACRL/catleg/DDW?W=AUTORE+PH+WORDS+%27de+bar%27+ORDER+BY+ORDINAMENTO/Ascend&M=9&R=Y&U=1

http://sol.cib.unibo.it/SebinaOpac/Opac?action=documentview&sessID=D168248EC9BC41092FE8EE75929D9A5E@399ef384&docID=13

Piacerebbe anche a noi fare luce sulla storia dei partigiani sinti e rom, e saremo contenti se il nostro piccolo contributo potrà fare da stimolo ad un approfondimento.

Possiamo infine consigliare all’ANPI, oltre a consultare questo splendido libro, di andare a parlare ai sinti che vivono nel territorio che comprende la bassa mantovana, l’Appennino e la bassa modenese.

Siamo sicuri che, più e meglio dei libri, siano gli anziani delle comunità sinti e rom a conservare il ricordo di storie familiari simili. Con i loro ricordi potrebbero dare un valido contributo ai meritevoli sforzi dell’ANPI di ricerca storica e di conservazione della memoria dei partigiani italiani.

L’amore prima di John Lennon – gloria e mito di Toshi Ichiyanagi

Toshi Ichiyanagi

A volte trovo ingiuste le gerarchie attribuite dagli storici agli eventi umani. Dico ciò perché, talvolta, l’approfondimento delle vicende personali di alcuni personaggi chiave dell’età umana del mondo può essere ostacolato dalle letture più abusate e stereotipate in materia; le stesse letture per cui risulta facile sorvolare su un personaggio che, alla meglio, verrà ricordato da molti come “il primo marito di Yoko Ono” anzichè come uno dei pionieri della “nuova musica” giapponese.

Anche per me, ovviamente, Toshi Ichyianagi è stato a lungo soltanto il nome del primo marito di Yoko Ono. Decisivo è stato l’apporto di un libro come Japrocksampler di Julian Cope, accurata e amorevole ricostruzione dei primordi del pop, del jazz, del rock e della musica d’avanguardia giapponese del XX secolo, oltre che fonte primaria di rubacchiamento per quest’articolo.

L’approccio di Cope, musicalmente eclettico e antisettario, consente di farsi un giro non solo sonoro nella storia del Giappone, partendo dall’ evento che simbolicamente segna la fine del suo “isolazionismo volontario”1 (ovvero l’attracco di quattro navi a vapore statunitensi, avvenuto nel 1853, dalle quali il commodoro Matthew Perry scese per pretendere e ottenere l’apertura di una rotta commerciale “in nome del governo degli Stati Uniti”2) fino ad arrivare ai primi anni ’80 e agli esordi del pop digitale.

Una delle figure discusse nel libro è proprio il primo Mr. Ono. Nato a Kobe nel 1933, Ichiyanagi fu probabilmente fra i primissimi compositori provenienti dal Giappone a frequentare gli insegnamenti di John Cage alla Juilliard di New York, meta raggiunta grazie allo sviluppo di un precoce talento pianistico e all’ottenimento di una ricca quanto prestigiosa borsa di studio intitolata E.A. Coolidge.

John Cage

Proprio a metà del primo anno di università avvenne l’incontro con Yoko. La quasi coetanea di Toshi si trovava negli States già da due anni, allora, e grazie all’appoggio di una famiglia particolarmente colta e agiata era entrata in contatto con le istanze più radicali della performance art e delle avanguardie newyorkesi, oltre che con le esperienze della Gutai Art Association giapponese. Le lezioni di Cage finirono fra l’altro con l’intrigare anche Yoko, portandola ad essere perfino più zelante del futuro marito nel prendere appunti.

Il matrimonio di Yoko e Toshi, avvenuto in barba alle mire aristocratiche dei genitori di lei, avvenne nel ’56; ma nel loft senza riscaldamento del Lower East Side di Manhattan dove i due si erano trasferiti comincia una non facile convivenza.

Toshi, completamente assorbito dal suo lavoro su Trio, “composizione di otto minuti per arpa, flauto e nokan (flauto giapponese di bambù)”3, non si cura neanche della presenza di una moglie che, costretta a lavorare come cameriera per far quadrare i conti, aveva probabilmente insufflato nel suo concetto di unione matrimoniale una dose letale di romanticismo bohémien.

Nel ’57 una coincidenza fin troppo annunciata sprofonda Ichiyanagi nella depressione più nera: Cage decide di far coincidere la presentazione della sua Winter Music con la prima dello String Quartet di Toshi, un’opera, questa, particolarmente ponderosa e notevole per numero di riscritture da parte dell’autore. Il successo di Winter Music fu tale da scardinare temporaneamente i sogni di gloria di Ichiyanagi e con essi, lentamente, anche l’unione con la futura Fluxus-iana Yoko.

Il matrimonio regge a fatica fino al 1960. Nel 1961 Toshi, con sua indicibile gioia, venne invitato a presentare le sue opere ad un seminale festival di musica sperimentale e d’avanguardia organizzato a Tokyo dal critico e musicologo Hidekazu Yoshida. La prospettiva di ritornare in patria come “Eroe Culturale, che riaffiora dall’Ade stringendo sottobraccio bobine di nastro magnetico”4 era una delle principali ambizioni del figlio della working class di Kobe.

Il suo successo fu tale da portarlo ad affermare in tempi recenti che fu proprio il ’61 l’anno zero della musica sperimentale giapponese. Nonostante ciò non corrisponda del tutto a verità (già qualche anno prima, infatti, l’avanguardia giapponese annoverava personaggi come giovane il pianista Yuji Tahashi, pubblicamente apprezzato da Iannis Xenakis), è pur vero che Ichiyanagi fu riconosciuto fin da subito come un argonauta della composizione d’avanguardia al pari di colleghi come Earl Brown, Morton Feldman e dello stesso Cage.

Fu proprio quest’ultimo ad assaporare in Giappone un successo la cui base, nel 1962, era già stata consolidata da una recente ma esplosiva fioritura locale di sempre più audaci approcci alla composizione e alle tecniche esecutive. In occasione della visita giapponese del febbraio di quell’anno fa nuovamente capolino Yoko nella nostra storia, una Yoko galvanizzata dalle aspettative di grandeur che solo un ritorno in patria in compagnia di Cage poteva darle.

Il nostro amico Zen Master musicale si era infatti “invaghito” dell’insolenza di Yoko, tanto da proporle di aprire i concerti del tour giapponese con delle performance ad hoc (per quanto possano considerarsi “ad hoc” le trovate di un’artista che non aveva esitato ad approfitare di una prima alla Carnegie Recital Hall per amplificare con un microfono lo sciaquone del bagno delle donne). Una simile vetrina artistica, unita alla possibilità di riallacciare i rapporti con l’ex marito da lei stessa allontanto, costituiva un’occasione fin troppo ghiotta.

Purtroppo anche la ragazza, come Toshi pochi anni prima, subì piuttosto direttamente il trionfo accordato al nome più celebrato in cartellone. Le sue apparizioni vennero continuamente relegate fra le “note a piè di pagina delle recensioni entusiastiche di Cage”5, quando non ignorate del tutto. Toshi, dal canto suo, contribuì al generale clima di indifferenza nei confronti di Yoko con un atteggiamento che lasciava ben poco spazio ai ritorni di fiamma. Il tutto cosituì una sequela di delusioni tanto amare, per Yoko, da condurla a procurarsi un’overdose di tranquillanti in seguito alla quale venne ricoverata in un istituto psichiatrico. A poco le servì la commissione, ricevuta da Ichiyanagi (che nel frattempo aveva completato una avveniristica composizione elettronica lunga 9 minuti intitolata Parallel Music) per una colonna sonora da associare al film Ai (“Amore”) di Takahiko Iimura.

Il Fluxus degli eventi (che battutona!) doveva scorrere ancora per qualche anno prima che la performance art potesse affermarsi in Giappone tanto quanto la musica d’avanguardia.

La musica, più di ogni fatua manifestazione di ego, rimane; e con essa le fiamme e i petali di loto di lavori Ichiyanagiani come Opera From the Works of Tadanori Yokoo, un doppio LP ultrararo ma ormai celebre, fra le altre cose, anche per alcune trovate di “packaging multimediale” riprese in seguito, con simili modalità, da innumerevoli artisti e gruppi delle più disparate estrazioni stilistiche.

Copertina di Opera...

Nonostante io abbia riportato principalmente gli eventi più mondani di tutta la vicenda Ono-Ichiyanagi, invito gli interessati a farsi un giro fra le segrete dell’oceanica discografia del compositore.

Un veloce riferimento: http://en.wikipedia.org/wiki/Toshi_Ichiyanagi.

Sull’operato artistico delle varie altre figure coinvolte in questo sproloquio non mi pronuncio. Per il momento…

di Furious George

1J.Cope, “Japrocksampler”, Arcana ediz., Roma 2008, p. 29.

2Ibidem.

3Ibidem, p. 64.

4Ibidem, p. 65.

5Ibidem, p. 71.

Il Giorno del ricordo: un’occasione per dare il peggio di sé.

Oggi tutti parlano delle foibe. Noi abbiamo deciso di ospitare un contributo lucido e documentato, opera del nostro amico Alberto Corleone.

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L'area di Basovizza

In questo inutile “Giorno del ricordo” – una di quelle occasioni che non spingono affatto gli italiani a porsi domande problematiche sugli eventi storici, ma li porta piuttosto a dare il peggio di loro, traendone fuori tutta la cultura superficiale e le peggiori capacità acritiche – ho deciso di scrivere un breve articolo sulla questione delle foibe per cercare di contribuire alla creazione di un’oasi di confronto in mezzo al deserto, consapevole del fatto che saranno in pochi a ripararsi all’ombra delle palme per dialogare e in molti a cercare di affogarmi nel piccolo laghetto anziché godere del refrigerio.

Durante la mattinata di oggi, 10 febbraio, mi è bastato fare un giro su Twitter e su Facebook – e penso che nulla sarebbe cambiato se mi fossi sintonizzato su un qualunque canale televisivo nel quale si è affrontata la questione – per rendermi conto di come queste occasioni polarizzino l’opinione pubblica sue due posizioni nette e contrastanti incapaci di rendere conto della complessità degli eventi. Quando si parla di foibe sembra che tutti abbiano la verità in tasca riguardo alla natura e il numero dei morti: italiani innocenti o fascisti; milioni di caduti, martiri addirittura, piuttosto che qualche centinaio di morti ammazzati per una giusta causa. Invece, nella questione delle foibe l’incertezza sul numero dei morti ammazzati è, paradossalmente, l’unico dato concreto di cui disponiamo. Un’incertezza che fa comodo a chi non interessa la verità e che ha lasciato strada libera alle ricostruzioni strumentali.

Quelle che per adesso vanno per la maggiore e che sono state abbracciate, in parte, dai rappresentanti delle istituzioni italiane, gonfiando in maniera esagerata le cifre dei morti, interpretano la tragedia delle foibe come un “genocidio nazionale” attuato esclusivamente ai danni degli italiani in quanto tali e per anni occultato dal “potere”. Argomento quest’ultimo abbastanza discutibile perché se è vero che per molto tempo, a livello nazionale, la questione delle foibe è stata messa in sordina per motivi di opportunità politica – è noto infatti che in seguito all’espulsione della Jugoslavia di Tito dal Cominform, avvenuta nel 1948, era quantomeno opportuno mantenere buoni rapporti con il vicino, considerato una spina nel fianco più per il blocco comunista che per la Nato – è pure vero che a livello locale, Trieste e dintorni, è sempre stata un’efficace arma di consenso brandita in occasione di elezioni e cerimonie pubbliche. Per non parlare poi degli ultimi vent’anni del Novecento quando, contestualmente alla progressiva disgregazione dello Stato jugoslavo, la tesi del “genocidio nazionale” è salita ai massimi vertici della ribalta e fatta propria da quasi tutti i partiti che si sono alternati al governo del paese, cavalcata spesso e volentieri dai media i quali hanno abusato di frasi fatte e stereotipi discutibili, riportando cifre inesatte e narrazioni di eventi non verificati, come le spettacolari testimonianze degli uomini usciti vivi dalle foibe.

Ma ci sono anche tesi ascrivibili, a vario titolo e con diverse gradazioni di buon senso, alla galassia della sinistra comunista italiana, che in generale tendono a minimizzare il numero dei morti riducendone la natura a quella di criminali di guerra eliminati secondo giustizia, denunciando qualunque tipo di ricostruzione storica al di fuori di questo schema come un tentativo di “revisionismo storico” e di “revanscismo fascista”, rispolverando così un classico della retorica vetero-comunista che spero non spaventi più nessuno.

A tutti i livelli, dobbiamo sorbirci le più grossolane inesattezze riguardo a quegli eventi, dal Gasparri ministro, che nel 2004 ha parlato di “milioni di infoibati”, al presidente Napolitano che nel 2007, nel tentativo di sganciarsi definitivamente dalla scomoda etichetta di “comunista”, si è riferito alle foibe definendole un atto di “pulizia etnica”. Sono questi gli italiani? Dobbiamo per forza scegliere tra Gasparri o Napolitano? O dobbiamo ancora una volta rifarci ai vecchi arnesi della propaganda comunista e vedere fascisti ovunque? Non è il caso di disperare.

Volgendo lo sguardo al dibattito storiografico più serio, già negli anni Ottanta c’era qualcuno in grado di dire delle cose sensate sull’argomento. È stato lo storico triestino Elio Apih a mettere in luce come alla base dell’atteggiamento jugoslavo della primavera del 1945, durante l’occupazione di Trieste e della Venezia Giulia, vi era una precisa volontà politica concretizzatasi nell’«eliminazione fisica dell’oppositore e nemico (di forze armate giudicate collaborazioniste) e insieme, [nell’]intimidazione e, col giustizialismo sommario, coinvolgimento nella formazione violenta di un nuovo potere»[1]. Un’occupazione “militare e politica”, come aveva avuto modo di ribadire lo stesso maresciallo Tito, che era mantenuta al prezzo di una politica repressiva caratterizzata da forti motivazioni anti-italiane, anche se è da escludere totalmente la categoria del genocidio. Semplicemente, come ha messo in evidenza Apih, in quei giorni a Trieste «governa uno Stato che attua una rivoluzione […] ed esso si afferma con modi propri delle rivoluzioni»[2]. In quel contesto gli italiani costituivano un problema decisamente più politico che razziale, dal momento che essi erano considerati gli oppressori del passato, i nemici del presente – poiché si opponevano all’annessione dei territori alla Jugoslavia – e quelli del futuro in quanto destinati a restare sotto la sfera d’influenza degli alleati occidentali. Si trattava dunque, nelle intenzioni dei vertici militari jugoslavi, di un atto di “epurazione preventiva” ai danni di quanti erano considerati un ostacolo per la creazione dello Stato socialista e non c’è dubbio che in Istria e nella Venezia Giulia questo ostacolo fosse rappresentato proprio dagli italiani.

In generale gli storici italiani e sloveni hanno mantenuto posizioni divergenti e contrastanti almeno fino al 1993, anno in cui ci si è accordati per l’istituzione di una Commissione mista storico-culturale con lo scopo di ripensare i rapporti e i conflitti verificatisi al confine orientale a partire dalla fine dell’Ottocento. Nello specifico, in riferimento ai fatti del secondo dopoguerra, la relazione finale di questa Commissione, datata luglio 2000, ha fatto finalmente proprie tutte le acquisizioni dei tentativi di storicizzazione degli eventi, che si erano susseguiti a partire dalla fine degli anni Ottanta, influenzati dalle intuizioni del già citato Elio Apih. Vi si afferma che le deportazioni e gli infoibamenti – intendendo con questo termine qualunque tipo di esecuzione sommaria realizzata in quel contesto storico – della primavera del 1945, durante il periodo di occupazione jugoslava della Venezia Giulia, «si verificarono in un clima di resa dei conti per la violenza fascista e di guerra e appaiono in larga misura il frutto di un progetto politico preordinato, in cui confluivano diverse spinte: l’impegno a eliminare soggetti e strutture ricollegabili (anche al di là delle responsabilità personali) al fascismo, alla dominazione nazista, al collaborazionismo e allo Stato italiano, assieme a un disegno di epurazione preventiva di oppositori reali, potenziali o presunti tali, in funzione dell’avvento del regime comunista, e dell’annessione della Venezia Giulia al nuovo Stato jugoslavo. L’impulso primo della repressione partì da un movimento rivoluzionario che si stava trasformando in regime, convertendo quindi in violenza di Stato l’animosità nazionale e ideologica diffusa nei quadri partigiani»[3].

Alla luce di quanto detto fin’ora si può dunque affermare che le foibe e le deportazioni, così come la cacciata degli italiani dall’Istria e dalla Dalmazia (trovo insopportabilmente retorico il termine “esodo”), sono fatti storici che vanno interpretati nel duplice contesto delle politiche di italianizzazione forzata dei territori slavi messe in atto da parte del regime fascista prima della guerra, e della rivoluzione comunista che si stava realizzando in Jugoslavia durante e dopo la guerra. Un clima di violenza determinato da una cieca, ma in certi casi comprensibile, volontà di rivalsa da parte dei partigiani titini e alimentato dai vertici del movimento comunista jugoslavo, i quali intendevano così realizzare un preordinato disegno annessionistico. Presentare le foibe come un genocidio nazionale è dunque scorretto, ma lo è altrettanto, pur contestualizzando, presentarle come un puro atto di giustizia, come l’eliminazione scientifica e infallibile di fascisti oppressori. Dentro quelle buche, accanto ai criminali di guerra, giacciono probabilmente cadaveri di ogni tipo: da pesci piccoli del regime – perché quelli grossi, come è noto, si riciclano facilmente[4] – a persone finite dentro ai rastrellamenti jugoslavi a causa di delazioni e vendette personali, o per puro caso; senza dimenticare gli antifascisti, non comunisti, contrari all’annessione, ma anche i partigiani che prima del 1943 furono giustiziati dai nazifascisti e in esse occultati. Affermare con arrogante certezza che nelle foibe è finito soltanto “chi se lo meritava” è francamente riduttivo quanto è paradossale legittimare il tutto tirando in ballo i regolari processi che sarebbero stati tenuti dalle armate jugoslave: una posizione, questa, che non sarebbe capace di sostenere neanche il più accanito dei giustizialisti.

Nonostante tutte queste acquisizioni non è raro imbattersi ancora in disarmanti luoghi comuni riguardo la questione delle foibe. Una reale storicizzazione degli eventi sembra non interessare a nessuno e le diverse interpretazioni dei fatti sono ancora brandite come armi il cui effetto è quello di suscitare quelle emozioni forti che sono il più grande ostacolo posto sulla strada della comprensione. Sembra che non possiamo meritarci niente di più di un dibattito pubblico fortemente inquinato da tesi figlie di pregiudizi ideologici, un dibattito gravemente dominato da questa dicotomia di fondo, sia pure con un forte sbilanciamento a destra che, tuttavia, non fa altro che scatenare i più bassi istinti di quel che resta della sinistra.

1Elio Apih, Trieste, Roma-Bari 1988, p. 166.

2Ibidem.

3AA.VV., Relazione della Commissione mista storico-culturale italo-slovena, <http://www.storicamente.org/commissione_mista.pdf>.

4«“Viva la repubblica stellata!” gridò l’avvocato Calafato, con una voce che non aveva perduto timbro e forza da quando, sei anni prima, alla stazione, era riuscito a salire sul predellino del treno per gridare “Duce, per te la vita!” sotto lo sguardo fiero e paterno di Mussolini». Cfr. Leonardo Sciascia, Siamo tutti gattopardi, <http://www.corriere.it/cultura/10_aprile_30/siamo_tutti_gattopardi_0420d0da-541e-11df-a5b5-00144f02aabe.shtml>.

L’ omertà non è male

L’omertà può essere “buona”?
Secondo ilfiumeoreto, sì.
Quando essa è al servizio dei deboli o degli amici, l’omertà viene chiamata complicità, ed è considerata lecita.
Quando essa è al servizio dei forti e degli oppressori, viene chiamata omertà e viene disprezzata.
Ma si tratta dello stesso procedimento, identico: occultare dei fatti conosciuti, di fronte a qualcuno che non ne sa niente ma vuole conoscere i fatti, sia esso la polizia o chiunque altro.
Ranajit Guha ha studiato le rivolte contadine in India e in Europa negli ultimi secoli, e ha notato che ci sono dei momenti in cui una comunità decide di non comunicare più col potere, oppressore e legale, e di tenere per sè le informazioni sul contropotere “criminale” (sia esso “mafioso” o “partigiano”, tagliando con l’accetta).
Facciamo due esempi. Qualcuno potrebbe leggerla come una provocazione, ma sono solo due esempi: potremmo farne mille altri.
Chi nascondeva un’ebreo durante le persecuzioni nazifasciste era omertoso verso l’autorità e complice verso chi ospitava.
Il commerciante siciliano che non denuncia il proprio estortore non nasconde nessun rifugiato, nasconde solo sè stesso dalla vendetta del “contropotere” illegale. Entrambi i casi meritano un identico rispetto.*

Pensiamo che l’omertà sia uno strumento che gli organismi sociali adottano per difendere sè stessi, sia a livello individuale sia per quanto riguarda le masse.
Ciò vuol dire che, a seconda delle contingenze storiche, la medesima azione di occultamento di notizie può essere al servizio disinteressato dell’umanità in generale o unicamente al servizio della propria umanità personale.
L’omertà è un’arma fondamentale di ogni gruppo o singolo in lotta per la propria sopravvivenza contro un potere costituito legale, statale o poliziesco.
Noi non diamo giudizi morali, non ne siamo degni; i siciliani che non denunciano i mafiosi sono omertosi; allo stesso modo, i romani che hanno nascosto gli ebrei nel 1945 erano omertosi verso il potere nazifascista. Entrambi operano per la sopravvivenza umana: disinteressata e di gruppo nel secondo caso, interessata e personale (o familiare) nel primo. Nel secondo caso domina il coraggio. Nel primo a dominare è la paura.
L’uomo lotta per la propria sopravvivenza, e lo fa da solo o in gruppo. Ogni tentativo di salvaguardia della vita umana merita rispetto, quando non minaccia la vita altrui in maniera diretta.
I giudizi morali vengono espressi spesso dal caldo di una poltrona o da dietro una scrivania, o durante una conferenza stampa.
Abbiamo deciso di affrontare un tema così delicato per farvi capire che i confini fra lecito e illecito, giusto e sbagliato, legale e illegale sono talmente mutevoli e sottili che dare giudizi morali non è facile.
Noi non pensiamo affatto che “un intero popolo che paga il pizzo è un popolo senza dignità”, come recitava uno dei cavalli di battaglia della campagna di viral marketing pianificata da Addiopizzo qualche anno fa per inserirsi nel mercato mediatico.


Slogan ad effetto, certo, ma totalmente fasullo.
Noi pensiamo che “un intero popolo” paga il pizzo per vivere, o quantomeno per sopravvivere.
La sopravvivenza.
Non è forse questo il massimo della dignità umana?

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* Entrambi rischiano qualcosa: chi nascondeva gli ebrei e veniva scoperto rischiava la morte per mano del potere legale; chi non denuncia il proprio estortore rischia, durante le vaste operazioni anti-mafia, di essere accusato di collusione: pagavi, non denunciavi e ti veniva consentito di lavorare. Colluso. Se denunciavi, tu e la tua famiglia rischiavate ritorsioni.
Il confine tra giusto e sbagliato, omertà e complicità, legale e illegale si confonde e si mescola di caso in caso. E cambia colore a seconda di chi narra gli eventi.

Paperissima Sprint e il cervello degli italiani

El Habib in compagnia di una infedele

I
Una bambina, ripresa con una telecamera dal padre, è illuminata solo dalla candelina piantata sulla torta del suo primo compleanno.
La bambina, dai folti capelli neri e dal viso particolarmente paffuto, con un vestitino bianco e rosa addosso, osserva intensamente la fiamma, questa luce calda e ballerina.
Piano piano, avvicina la piccola mano alla candelina, fino al compimento di un gesto perfettamente logico, secondo la testolina della rotonda bimbetta. Toccare il fuoco, accarezzare la luce, soddisfare la propria curiosità.
Le immagini mostrano l’inizio del percorso di conoscenza del mondo sensibile, che comporterà il formarsi di una memoria selettiva e porterà allo sviluppo delle facoltà intellettive, fondamentali per il genere umano.
Naturalmente, essendo la candelina l’unica fonte di illuminazione (diegetica), nel videotape del padre lo schermo si fa improvvisamente buio, lasciando l’ultimo fotogramma visibile ad illuminare il DOLORE sul volto della bimba.
Nel caso vi fosse sfuggito, abbiamo appena descritto TRE SECONDI E QUARANTA CENTESIMI di una puntata di Paperissima Sprint, programma di Antonio Ricci condotto dal Gabibbo e da Juliana Moreira, o Eva Henger, o da altre belle ragazze, accompagnate ogni tanto da qualche comico essere umano.

II
Paperissima Sprint dura all’incirca mezz’ora, così suddivisa: cinque minuti di pubblicità, altri cinque minuti di divertentissimi sketch fra il Gabibbo e le tette della presentatrice, il resto di papere.
Ilfiumeoreto cercherà di spiegare in che modo Paperissima sprint sia diventata il DESENSIBILIZZATORE dell’umanità degli italiani.
Le papere, se seguite con molta attenzione e con ancor più sensibilità, fanno provare al telespettatore quasi tutto l’arco delle emozioni e dei sentimenti che il nostro cervello ci consente di tastare.
Recenti ricerche sui neuroni specchio effettuate dall’Università di Parma hanno mostrato come questi neuroni si attivino sia quando proviamo fisicamente dolore/gioia/etc, sia quando GUARDIAMO qualcuno che prova dolore/gioia/etc.
Ad esempio, se in tv vediamo un uomo che beve da un bicchiere e poi fa un’espressione di disgusto, anche noi proveremo disgusto e repulsione, pur non bevendo niente. Paperissima Sprint, nell’arco di pochissimi secondi, produce una serie di immagini estreme, ognuna delle quali solletica i neuroni corrispondenti all’emozione provata:
dolore
tenerezza
fastidio
empatia
disgusto
eccitazione sessuale
paura
divertimento
tutto ciò concentrato in sessanta secondi di montaggio esplosivo, soprattutto nel finale sulle note del kazoo e con la melodiosa voce del Habib a fare da contraltare ironico alla vorticosa sequenza di stati d’animo dello spettatore, una folle corsa verso la totale estasi, o il totale annichilimento, della propria percettività.
Chi scrive reputa Paperissima Sprint la trasmissione più divertente prodotta da Mediaset nell’ultimo decennio e forse più. Per “divertente” intendiamo letteralmente “che fa ridere”. Guardando attentamente Paperissima Sprint senza dubbio qualche risata ve la farete.
Però bisogna sapere che il nostro cervello è SERIAMENTE stimolato in maniera estrema da queste immagini, montate in questo modo. Probabilmente la maggior parte dei telespettatori Paperissima Sprint la tiene come sottofondo durante la cena*, buttando ogni tanto l’occhio per ridere di un cagnolino che insegue la propria coda, o al contrario per bestemmiare guardando un terrificante incidente di auto da corsa, probabilmente mortale,sottolineato dai caratteristici rumori finti aggiunti in fase di montaggio: CSCSCSCSSSC….CRASH!SCRASH!
Il gattino e l’incidente in moto, i bambini che si fanno le coccole o che si picchiano, o che volano dall’altalena su un cespuglio, fino a scomparire dall’inquadratura e forse anche da questo mondo.
Concludiamo ricordando le passate polemiche montate da una certa sinistra contro Antonio Ricci, in particolare contro Striscia la Notizia.
Noi pensiamo che queste critiche siano una battaglia di retroguardia.
Un’analisi** più dettagliata di Paperissima Sprint potrebbe aiutarci a comprendere meglio i telespettatori italiani, il loro rapporto con il proprio cervello, le proprie emozioni, le proprie pulsioni.

Note

* James Lull parla di diverse modalità di fruizione televisiva: focused viewing (attenzione totale), monitoring (ad esempio, durante la cena, l’attenzione è discontinua) e idling (visione passatempo, dove l’attenzione è minima). Paperissima Sprint vive a cavallo fra le ultime due per gli adulti, mentre per i bambini è più probabile una visione del primo tipo.

** L’unica recensione di Paperissima Sprint da noi trovata in rete è di Fabrizio Bocca, e ci sembra davvero fuori fuoco, quasi velleitaria. Comunque eccone il link http://bocca.blogautore.espresso.repubblica.it/2011/09/22/siamo-tutti-paperissimi/