si deve fare satira sui musulmani? un tentativo di cambiare sguardo

"Altro che burqa!" sembra dire lo sguardo di Amedy Coulibaly

“Altro che burqa!” sembra dire lo sguardo di Amedy Coulibaly abbracciato ad Hayat Boumedienne

Edoardo Sanguineti, parlando di Ciprì e Maresco ma anche di Pasolini, diceva che il peggio che può capitare ad un artista eversivo è di essere celebrato dai propri nemici; vedere quindi Hollande, Sarkozy, Angela Merkel e il presidente turco Davutoglu marciare uniti al grido di “Je suis Charlie” è la dimostrazione che il messaggio di Charlie Hebdo era facilmente strumentalizzabile dal potere che invece sosteneva di combattere.

Continuiamo la riflessione sui fatti di Parigi e sul tipo di satira proposta da Charlie Hebdo.

Negli ultimi cinque giorni questo blog ha ricevuto il numero di visite che di solito riceve in due mesi, segno che forse il nostro discorso ha toccato alcune corde non sfiorate dai maggiori commentatori.

Innanzitutto chiariamo qualcosa che è bene ripetere dopo aver pubblicato questo articolo.
Se noi fossimo stati a Parigi, molto probabilmente saremmo scesi in piazza in solidarietà con Charlie Hebdo: è assolutamente inaccettabile una strage simile, e nessun tipo di satira fascistoide (come lo era a volte quella di Charlie Hebdo) può meritare una rappresaglia del genere.

Proviamo però a ribaltare il framing, la narrazione dominante.

Questa è la narrazione dominante:
La Libertà d’Espressione, Valore tipicamente Europeo, va tutelata dai fanatici di tutte le Religioni: quindi è un atto di Coraggio pubblicare le Vignette, anche le peggiori, perché solo così, con le Armi della Libertà, vinceremo il Terrore dell’Oscurantismo. I Musulmani devono rispettare i Valori Europei, per cui noi siamo pronti a Morire.

Cosa rispondere ad un discorso di questo tipo? Noi risponderemmo così.

Un giornale della borghesia francese si diverte, al solo fine di attirare l’attenzione, a violare ripetutamente uno dei principali precetti dell’Islam. In Francia (una nazione che da secoli occupa militarmente gran parte del mondo musulmano africano) vivono 6 milioni di musulmani, molti dei quali “integrati” (cioè membri della borghesia) e molti altri “non integrati” (cioè poveri delle periferie). I “non integrati” possono avere tre strade: la fatica, la malavita o la religione. Nel caso dei killer di Parigi, sono tutte e tre le cose: operai, rapper, piccoli spacciatori, che in carcere incontrano gente che li converte ad una versione oltranzista e letteralistica dell’Islam. Evidentemente, il risentimento nei confronti di un sistema che ti emargina è paglia che arde facilmente al fuoco della violenza. La Haine.

Se vivi in un paese in cui un abitante su otto è musulmano, in cui i musulmani sono generalmente più poveri e emarginati dei "bianchi" , in cui è vietato l'uso del niqab pena l'arresto, in cui le forze armate bombardano dagli anni '50 vasti settori del mondo arabo. Se lo fai, sei pienamente consapevole delle conseguenze. SAREBBE UN INSULTO AI CADUTI pensare che non fossero perfettamente al corrente dell'odio che stavano seminando. E sarebbe da ipocriti negare che non immaginassero la propria fine

(trovate le differenze tra l’immagine qui sopra e l’immagine qui sotto)

gasabissinia

La violenza insensata e vergognosa dei killer di Parigi non scalfisce però di una virgola il giudizio su molte delle scelte artistiche di Charlie Hebdo: puro odio, disprezzo per le vittime di un colpo di stato, condita da una inutile raffigurazione blasfema del corano fatto di feci, un modo sicuro di attirare l’attenzione. Se fai una battuta su un massacro occorso poche ore prima, dicendo che in fondo il Corano non salva dalle pallottole, stai dalla parte del potere, dei generali golpisti. Sarebbe come se, in nome della Libertà di Stampa, facessimo una vignetta in cui Charb, con una smorfia e gli occhi a X, si ripara dalle pallottole con una copia marrone di Charlie Hebdo trapassata dai proiettili, col titolo: “Massacro di Parigi: Charlie Hebdo è una merda! Non ripara dalle pallottole!” hahaha, giusto? dobbiamo ridere, giusto?

dieudonnè

Naturalmente qualcuno ci ha già pensato

Certo, si può obiettare che Charlie era di sinistra, a favore di Gaza e contro la famiglia Le Pen. Questo è certamente vero. Ma sapevano benissimo che per avere l’attenzione globale bastava disegnare Maometto. Nessuno a livello globale li avrebbe cacati di striscio altrimenti, e Wolinski l’erotomane sarebbe ancora tra noi.
Reificare Maometto a forza, come le signore francesi che strappavano il velo alle tunisine negli anni ’50 in nome del Femminismo (Charlie Hebdo naturalmente adorava un fenomeno come le Femen). Introdurre a forza un cambiamento radicale nell’Islam dai propri salotti borghesi parigini, tra un patè, un vino buono , una tetta e un quadro da 50mila euro. In Francia, la terra dell’Odio.
Perché in Italia queste cose non succedono? Uomini politici del centrodestra di Lega e PDL hanno osato blasfemie molto più estreme di Carlie Hebdo, ma qui la situazione è meno tesa. Non ci sono banlieu, non ci sono colonie. Ma è solo questo?

Perché in Sicilia, la porta attraverso cui arrivano in Eurioa gran parte dei migranti musulmani, non ci sono mai state manifestazioni contro l’immigrazione? Perché qui i rapporti sono tendenzialmente pacifici e c’è meno odio?
Ancora, perché i vignettisti italiani pensano ad altro? Forse perché sono più scarsi? O forse perché hanno altre priorità rispetto a quella di insultare una religione minoritaria, propria dei ceti generalmente più bassi e delle ex colonie?

BORAT; SOUTH PARK

Qui non si tratta di non poter fare satira sull’Islam. Un paio di anni fa, uno stand up comedian americano diceva che lui non faceva battute sull’Islam “because, come on.. who knows a shit about Islam?” e questa candida ammissione (oltreché pregevole battuta) è generalmente valida. Nel cosiddetto “Occidente” non è facile ridere sulle cosiddette “minoranze”. Bisogna essere bravi per non risultare stupidi o addirittura fascistoidi (come a volte capitava a Charlie).

Ci sono infatti due esempi di satira abbastanza estrema sui musulmani che presentano lati interessanti, a nostro avviso artisticamente ben più riusciti della blasfemia di Charlie Hebdo.
South Park nel Luglio 2001 (precisamente il 4 Luglio!) disegnò Maometto e nessuno disse niente, perché prima della guerra in Iraq e Afghanistan la situazione era così, molto tranquilla. Poi nel 2006 ci fu un caos per due puntate in cui South Park mostrava Maometto. In realtà si trattava di due puntate mozzafiato, esilaranti e sceneggiate magistralmente, in cui Maometto era disegnato con il volto coperto, quindi non era realmente rappresentato . Un modo poetico e realmente graffiante di professare il proprio ateismo militante, privo di quegli estremismi inutili fatti da chi cerca soltanto attenzione. In altri episodi (in cui la raffigurazione di Maometto venne censurata dalla rete) sullo stesso argomento si parla anche della libertà d’espressione artistica e dei limiti e della qualità dell’espressione satirica, una lezione che a Charlie Hebdo non hanno imparato.

Gli autori di South Park, Stone e Parker, hanno anche raccontato in maniera perfetta la retorica guerrafondaia della War on Terror contrapposta alla retorica pacifista in Team America, altro film esilarante e genuinamente satirico, al di là del punto di vista espresso.

Un ulteriore esempio abbastanza riuscito è The Dictator, il cui autore spesso ha impersonato personaggi di fede musulmana o di altre minoranze. Il suo Dictator cammina sul filo ma Baron Cohen non è uno sprovveduto e riesce a tenersi in equilibrio grazie anche alla potenza del suo corpo comico. Il monologo finale dimostra come la camminata sul filo (raffigurata visivamente poco prima) riesca alla perfezione, un concentrato esplosivo di satira contro il potere, fatto recitare ad un perverso dittatore musulmano di fronte all’ONU. Nulla a che vedere, converrete, con il Maometto fallico riproposto ancora da Charlie Hebdo nella prima pagina dopo l’attentato, argomento trito e ritrito del più vacuo ateismo militante da tastiera. Ancora e ancora e ancora, senza risparmio reifichiamo Maometto, accaniamoci contro una minoranza per il diritto alla libertà d’espressione.

“Democracy looks like a midget in a chemo wig”

South Park e Sacha Baron-Cohen hanno usato sull’Islam e sui musulmani una satira senza sconti, hanno subito minacce ma la loro arte si situa su un piano di ricerca estetica ben superiore alla mera derisione della vittima usata talvolta da Charlie Hebdo.

Adesso ci troviamo in una situazione di crescente islamofobia, su cui speculano in molti. Crescono, in Francia, Germania, Svezia e Olanda, gli attentati incendiari contro le moschee. Quel che è peggio è che all’ondata islamofoba si accompagna una ondata antisemita, con gli ebrei francesi che piangono quattro vittime e che si ritrovano continuamente bersaglio di possibili attentati. Netanyahu li invita ad andare in Israele, ma non siamo sicuri che lì la situazione sia più tranquilla.

Democracy kisses you when she wants to, not because the father is in the next room chained to a radiator with electrodes attached to his nibbles.
La beffa finale, quasi mortificante per Charlie Hebdo, la notizia che definitivamente li pone, pur da vittime, dalla parte del potere, è giunta ieri.
Dieudonné, altro pessimo esempio francese di satira al servizio dell’odio, è stato indagato per aver scritto su internet “Je suis Charlie Coulibaly”, e per aver pubblicato la vignetta su Charb che avete ammirato sopra.

Ormai i blasfemi vignettisti di Charlie Hebdo, da morti, sono diventati talmente Sacri che se un altro comico osa prenderli in giro, viene subito indagato.

Un feroce contrappasso per dei vecchi bestemmiatori libertari che avevano subito infinite cause legali, che non hanno rinunciato a deridere nessuno, neanche i morti ammazzati. Tristemente, ma ironicamente, tocca a loro essere derisi dopo l’assassinio.

Analisi dello sketch di Luca e Paolo sui due marò: i difetti del politicamente corretto.

marooo

Non abbiamo visto neanche un minuto di Giass di Antonio Ricci, quindi non possiamo esprimere giudizi sulla trasmissione di Canale 5. Però abbiamo visto il video dello sketch sui due marò che ha sollevato tante polemiche, e abbiamo deciso di fare notare i (tanti) difetti e i (pochissimi) pregi di questa scenetta.

Noi pensiamo che si possa fare satira su un argomento del genere ma che ci vuole una grande abilità, e il tipo di satira satira scelto da Ricci ha avuto effetti comici meno che mediocri. Ma procediamo con calma.

Innanzitutto, gli autori hanno sapientemente fatto girare le foto e le indiscrezioni da giorni prima, per creare l’effetto attesa. Una mossa riuscita brillantemente se giorni prima della messa in onda erano già migliaia i messaggi di insulti su internet contro Luca e Paolo per aver “indegnamente preso in giro i NOSTRI marò”.

Poi uno vede lo sketch e si rende conto che non sono i marò a venir presi in giro, ma i politici “incapaci di riportarli a casa”. Il fatto di toccare un tema così sensibile aveva fatto scattare l’orgoglio dei patrioti online che avevano criticato la scenetta prima di rendersi conto che in realtà Ricci e i due comici erano a favore dei marò.

Qualcosa del genere accadde anni fa con la famosa puntata di South Park su Maometto: anche lì per creare l’attesa vennero diffuse notizie prima della messa in onda che causarono polemiche planetarie e violente, e anche lì lo sketch era in realtà abbastanza rispettoso e, pur annunciandolo ripetutamente, non mostrava realmente il volto del Profeta. Ma le affinità tra i due sketch finiscono qui, visto che la satira di Parker e Stone era potente e raffinata mentre quella di Ricci nel caso in questione è quanto di più facile e banale si possa mettere in campo sull’argomento.

Qua potete vedere il video.

Il presupposto di questo sketch è questo: se i due marò stanno ancora in India, la colpa è dei politici, non dei marò. I due marò sono vittime dei vari Gasparri e politicume vario che si fa bello andando a trovarli ma che non è in grado di riportarli a casa.

Nello sketch di Ricci i due marò sono vittime, e i politici sono carnefici.

Un presupposto inaccettabile per una scenetta comica, visto che è falso.

Se i due marò si trovano in India la colpa non è certo di Gasparri, ma di chi ha ammazzato due innocenti pescatori.

Ricci non fa riferimento al fatto che due persone sono morte, preferisce scegliere la via più semplice dipingendo i due Marò come vittime dell’incapacità di politici (La Russa e Casini) e uomini di spettacolo Rai (Vespa, Giletti e la Carrà).

La colpa della situazione è “di un governo che non fa un cazzo per me”.

Cerchiamo di capire cosa ha spinto Ricci a prendere una posizione del genere.

Con questo programma Ricci si proponeva di fare una satira “contro il politically correct“. Usare i due marò per una scenetta comica va letto come una come atto in sè provocatorio, al di là degli effettivi contenuti che invece sono tutt’altro che irriverenti e anzi si appoggiano sul pensiero dominante che vede i “poveri marò” come vittime di un’ingiustizia e non come presunti assassini in attesa di giudizio. Se voleva adare realmente contro il politically correct imperante del nazionalismo da Domenica In, Ricci avrebbe potuto fare un riferimento alle vere vittime di questa storia, cioè i due pescatori ammazzati.

La verità è che Ricci ha scelto la strada più comoda: annunciare in anticipo la burla ha fatto sì che gli utenti dei social network filo-marò si indignassero, raggiungendo così preventivamente il risultato della tanto agognata scorrettezza politica, in questo caso totalmente fine a sè stessa visto che lo sketch, come abbiamo visto, era totalmente a favore dei due Marò.

Non mettiamo in dubbio l’ipocrisia di molti personaggi pubblici sui due marò, qui sbertucciata da Ricci.

Ma è troppo comodo usare questi dettagli per far ridere, non è niente di più che uno stereotipo abusato, la satira non è per niente graffiante anzi è qualunquista, visto che incolpa la Kasta anche quando, per una volta, non ha colpe.

La verità è che Ricci sperava di raggiungere l’effetto desiderato unicamente con la scelta del soggetto-tabù e non tramite la qualità della satira.

Intendiamo dire che il solo fatto di scegliere un argomento-tabù per fare satira non fa di te un vero provocatore, se poi il modo in cui affronti tale argomento-tabù è scontato, conformista e per niente graffiante. I due marò (che nella realtà sono accusati di un duplice omicidio per il quale lo Stato Italiano ha già deciso di risarcire le famiglie dei pescatori uccisi) sono le vittime scelte da Ricci per prendere in giro i politici italiani. Non riusciamo a pensare a niente di più banale e politically correct.

Ricci con questa scenetta ha fallito tre volte: da un punto di vista satirico visto che lo sketch non fa ridere; da un punto di vista delle intenzioni, visto che il politically correct non è stato abbattuto anzi è stato pienamente abbracciato; da un punto di vista degli ascolti, visto che tutta l’attesa generata ha influenzato negativamente gli spettatori che hanno abbandonato Giass al suo destino.

Tova Reich, My Holocaust: l’antidoto al Giorno della Memoria

Questo teatro l’hanno chiuso i nazisti..”

Davvero? E chi gli ha dato le chiavi?”

Karl Kraus

I really appreciate that Auschwitz is wheelchair-accessible..

Was it always this way, I mean, even at the time of the Holocaust?”

Tova Reich, My Holocaust

Negli ultimi anni, tanti sono stati gli episodi che hanno sollevato la discussione sui limiti che la satira deve o dovrebbe rispettare per non ferire i sentimenti di determinati gruppi etnici e religiosi.

Il caso più noto e che ha avuto le conseguenze più serie è stata la pubblicazione, da parte del giornale danese Jylland Posten di una serie di ‘vignette blasfeme’ riguardanti il profeta Maometto.

Non ci interessa parlare delle proteste (giuste o meno) scatenate dalla pubblicazione; ci interessa, per introdurre l’argomento centrale di questo paper, la risposta del governo iraniano al giornale danese: con quella che ad alcuni sembrò l’ennesima provocazione e ad altri una abile mossa politica, all’indomani dell’esplosione della “crisi internazionale delle vignette” Mahmoud Ahmadinejad indisse un concorso internazionale di vignette satiriche sulla Shoah. Alcune di quelle vignette, lungi dall’essere un semplice sfottò del dolore delle vittime dello sterminio, sono pregne di un lirismo e di un pacifismo davvero commoventi.

Per un iraniano la Shoah è stato un evento storicamente marginale su cui è possibile fare satira; allo stesso modo, un vignettista di una metropoli europea1 può reputare assurdo il precetto coranico che proibisce la rappresentazione grafica del Profeta. Questo è il valore del contesto in cui la satira viene esercitata, un argomento di cui ci occuperemo più avanti, e di cui ha parlato ampiamente Daniele Luttazzi.

Cosa succede quando, al contrario, a fare satira su argomenti tabù è un membro stesso della comunità religiosa/etnica/nazionale?

La fatwa contro Salman Rushdie o l’ostracismo israeliano verso Hanna Arendt, pur con le dovute differenze, sono due episodi che ci permettono di capire quanto gli animi di una comunità possano infiammarsi maggiormente se a sollevare questioni scomode sono persone che fanno parte “dei nostri”.

Il nostro obiettivo è capire perchè quest’ opera (il romanzo My Holocaust scritto da Tova Reich e pubblicato nel 2007), nonostante la provocazione estrema, la satira feroce e senza sconti sul più tabù degli argomenti, sia stata accolta con recensioni al 90% positive e quali siano le variabili che hanno evitato l’esplosione di un caso mediatico.

Il mio Olocausto: come ridere dei sopravvissuti di Auschwitz senza deriderli.

Il protagonista del romanzo è Maurice Messer, un anziano ebreo sopravvissuto all’Olocausto che si inventa un passato da partigiano anti-nazista per darsi un’ aura di eroismo e che (assieme al figlio Norman) presiede con cinismo la Holocaust Connections Inc., la società che gestisce i luoghi della memoria di Auschwitz e di Washington e che “concede il marchio con la H a qualsiasi Olocausto il cliente desideri”.

La sua condotta profondamente immorale, velata dal moralismo di chi è convinto di svolgere un compito immane, fa da sfondo all’azione di una serie di personaggi improbabili, le cui azioni mettono alla berlina il pietismo ipocrita di molti luoghi della memoria, di chi li frequenta e, soprattutto, di chi li gestisce.

I due lunghi capitoli del libro sono ambientati rispettivamente ad Auschwitz (descritto dall’autrice come una pacchiana e irrispettosa “sagra dell’Olocausto”) e al Museo di Washington, nell’occasione occupato con la forza da parte di un gruppo di “universalisti degli Olocausti”.

Il romanzo segue il protagonista attraverso la sua rincorsa ai portafogli di facoltosi donatori ebrei, via via seguendo le polemiche con bizzarri sopravvissuti della Shoah (ma più onesti del presidente del Washington Memorial), fino allo scontro con la variopinta truppa composta da hippie, riservisti israeliani insensibili alla Shoah, buddhisti (“cioè ebrei convertiti” sottolinea l’autrice) e da vari esponenti dei più disparati olocausti, dall’ Olocausto Tibetano a quello Palestinese, da quello Armeno a quelli degli afro-americani e dei nativi americani, in un crescendo parossistico che arriva a comprendere, e ad equiparare alla Shoah, gli olocausti dei furetti e delle balene, l’olocausto dei polli e l’assurdo olocausto mestruale con i suoi miliardi di ovuli vittime innocenti dell’accanimento della natura..

La tensione del romanzo è palpabile, l’impeto morale dell’autrice anche, e si dipana in questa lotta fra lobbysti senza scrupoli (gente che “..si venderebbe i sei milioni di morti per un posto d’onore alla cena alla Casa Bianca”) e hippie universalisti decisi a relativizzare la Shoah, cacciando gli ebrei dalle “vette inarrivibili di vittimismo” in cui questi ultimi sembrano essersi arroccati, raggiungendo così la “unicità” di tutti gli Olocausti.

Riferimenti a personaggi e avvenimenti reali all’ interno del romanzo.

Ad un lettore poco ferrato nelle questioni dell’ebraismo americano o nella storia di Israele e della Shoah, il romanzo in questione potrebbe regalare meno sorrisi e risate a squarciagola: come in molte opere d’arte, sono presenti diversi piani di lettura; noi ne abbiamo individuati almeno tre:

1.il livello superficiale, quello del semplice romanzo satirico-grottesco;

2.un secondo livello comprensibile alla maggior parte degli ebrei americani con un’infarinatura di yiddish e di letteratura ebraica (da Primo Levi a Ka-Tzetnik) e di alcuni eventi storici degli ultimi decenni;

3.un terzo livello semi-esoterico, che si basa sulle esperienze personali dell’autrice e sui suoi legami familiari. Questo livello è stato reso più accessibile al pubblico grazie ad una recensione del Jewish Daily Forward che ha svelato una piccola parte del “who’s who” dei personaggi del romanzo rispetto ad alcune persone realmente esistenti.

Il primo livello è quello più superficiale, un libro che nella prefazione di Cinthya Ozick viene paragonato alle opere più abrasive di Swift e di Orwell: forse esagerando, la Ozick sostiene che “My Holocaust è uno dei romanzi sociali e politici più penetranti, accanto al quale La fattoria degli animali di Orwell appare come un semplice piagnucolio”. Certamente si tratta di un opera che è un pugno nello stomaco per molti, ma se non si è addentro alla cultura ebraica come lo sono la Ozick e la stessa Reich, la carica eversiva perde un po’ della sua potenza.

Il secondo livello è quello più facilmente comprensibile dall’uditorio cui la Reich principalmente si rivolge, quella borghesia ebraica americana che va in vacanza in Israele e che si autodefinisce “la seconda generazione della Shoah”, ovvero i figli dei reduci dai lager, raccontati in prima persona nel graphic-novel Maus di Art Spiegelman. Una generazione nata e cresciuta nel secondo dopoguerra, un periodo storico che in My Holoaust è ben presente, vista l’enorme mole di rimandi agli avvenimenti politici e alla storia dei rapporti ebraico-americani. Come esempio di ciò, è doveroso rimarcare l’opinione dell’autrice sui veri motivi che starebbero dietro alla concessione di un terrreno federale per il Memoriale dell’Olocausto nel 1978: l’amministrazione Carter avrebbe in questo modo dato un contentino alla comunità ebraica che si era opposta alla vendita da parte americana di aerei da guerra F-15 all’Arabia Saudita, ritenuti una possibile minaccia alla sicurezza di Israele. In questo modo, Carter avrebbe “regalato agli ebrei americani l’Olocausto in cambio dello stato di Israele”2.

Il terzo livello è quello più difficilmente accessibile, e fa sì che il romanzo funga anche da resa dei conti fra la Reich e alcuni personaggi realmente esistenti, le cui caricature si affacciano nello svolgimento di My Holocaust. Vediamo a chi si riferisce:

Maurice Messer: il nauseante protagonista del romanzo sembra essere ricalcato sulla figura di Miles Lerman3, presidente del Washington Holocaust Memorial dal 1993 al 2000, nonché artefice della defenestrazione4 di Walter Reich, direttore del USHMM fino al 1994, che altri non è se non il marito dell’autrice del romanzo. Questo spiegherebbe l’acredine con cui viene dipinto il protagonista.

Monty Pincus: l’assistente di Messer, un “mail-order rabbi” senza scrupoli e col sex appeal di chi ha sofferto le persecuzioni naziste (pur essendo nato nel 1949..) secondo Gabriel Sanders del Jewish Daily Forward sarebbe ispirato allo storico, nonché ex direttore organizzativo e scientifico del USHMM, Michael Berenbaum.

Il sommo sacerdote dell’Olocausto: un personaggio che compare nel convulso finale, e che è chiamato a risolvere, col suo carisma di intellettuale sopravvissuto (e dalle esose tariffe per comparire in pubblico) l’intricatissima situazione dell’occupazione del museo, dovrebbe essere Elie Wiesel5.

Crazy Spiderman Rabbi: un personaggio che non compare mai, ma di cui i protagonisti parlano spesso. Si tratta di un rabbino che anni prima si sarebbe arrampicato sul tetto del convento carmelitano di Auschwitz per protesta contro l’indifferenza dei cristiani durante la Shoah. È un episodio realmente accaduto nel 1989, quando il convento si trovava ancora all’interno dell’area del lager (ora è stato spostato pochi metri fuori). Il rabbino in questione era Avi Weiss, molto noto per le sue posizioni ultra-sioniste nonchè fratello dell’autrice Tova Reich nella vita reale.

Ovviamente non possiamo sapere quanto l’autrice abbia attinto da altre persone reali6 per enfatizzare il racconto, la cui vena dissacrante trae linfa da episodi accaduti veramente nella vita della scrittrice, e che probabilmente le hanno fatto covare quel risentimento utile alla creazione di un’opera così dissacrante, velenosa e iconoclasta.

Le reazioni della critica

Secondo Dario Fo, il metro di paragone per misurare la bontà di qualsiasi opera satirica sta nella reazione del pubblico: più i destinatari danno in escandescenze, più la satira è da considerarsi riuscita.

Questa opinione è sicuramente condivisibile, ma non applicabile al caso di My Holocaust, visto che il 90% delle recensioni è stato entusiastico o comunque la critica è stata positiva.

Ovviamente non conosciamo la reazione dei personaggi reali messi alla berlina, ma possiamo immaginare che si sia sollevato più di un sopracciglio.

Le (poche) polemiche sulla carta stampata sono state generate dall’unica recensione negativa, scritta da David Margolick della New York Times Book Review, una delle più autorevole voci della critica letteraria a stelle e striscie, ospitata sul quotidiano della città che numera la più vasta comunità ebraica in America.

La recensione non è una vera e propria stroncatura ed oltre a sottolineare come la Reich usi i peggiori stereotipi anti-semiti sostanzialmente le imputa due peccati, considerati molto gravi: il primo è quello di aver inserito degli “Auschwitz factoids” all’interno di un libro di satira. Margolick ritiene “nauseante” dover leggere le vere prestazioni dei forni crematori del lager subito prima o subito dopo le performance comiche dei protagonisti; il secondo problema del libro sarebbe l’aver inserito i veri nomi di alcune vere vittime del nazismo, fra cui anche alcuni bambini uccisi ad Auschwitz.

Noi riteniamo questa critica debole perchè l’autrice, inserendo decine di riferimenti ad eventi storici reali, anche i più dolorosi, fa risaltare l’abuso perpetrato dai “proprietari” della memoria nei confronti delle vittime vere della persecuzione nazista.

Ad ogni modo, la Reich rispose personalmente con una lettera alla recensione di Margolick; o meglio, rispose usando uno stratagemma di sicuro effetto, facendo scrivere la lettera ad uno dei personaggi fittizi del libro7, l’ebreo sopravvissuto Lipman Krakowski, un ateo ottantenne culturista (!) e assiduo scrittore di lettere ai giornali. Abbiamo deciso di riportarne un ampio stralcio per fare capire quale sia l’idea di rispetto dell’autrice verso i sopravvissuti alla Shoa:

Stimato signor Giornalista,

[…]per questo sono venuto in America? Per sentire un ayatollah jewish boxer consegnare una piccola fatwa ebraica contro una scrittrice, dicendole ciò che può o non può scrivere a causa di ciò che potrebbero pensare i goyim?

Per sua informazione, l’autrice Signora Tova Reich conosce sopravvissuti della Shoah da tutta la vita. Noi non siamo santi. Siamo persone a cui è accaduta una cosa terribile. Mi scusi, ma non voglio che la mia fama derivi dal fatto che qualcuno abbia tentato di sterminarmi. Chiunque abbia un mezzo cervello è esausto da questo discorso “sacro” e di idolatria della vittima alle spese dei morti.

Her Holocaust: la Storia e la Memoria secondo Tova Reich

Quello che viene fuori da questa risposta (oltre ad una certa permalosità dell’autrice) è una visione storica ben precisa: i sopravvissuti della Shoah non sono le figure dolenti di martiri dei documentari à la Lantzmann, ma sono persone normalissime con i pregi e i difetti di ogni essere umano, e secondo la Reich è un vero e proprio affronto ipostatizzare8 la loro vita negli istanti in cui, in giovinezza, si sono trovati ad affrontare la barbarie nazista; qualcosa che i sopravvissuti stessi non vogliono e che è unicamente nell’interesse di chi può spremere soldi dal cosiddetto “Shoah Business”. Ciò appare chiaro dalle parole conclusive di uno dei personaggi, la nipote del protagonista fattasi suora carmelitana al convento di Auschwitz9, in uno dei pochi (ma potentissimi) momenti in cui la satira fa spazio alla riflessione,

Vago per il museo in rovina, illuminando le immagini e le icone alla luce di una candela della memoria. La ragazza che lotta per coprirsi il seno rimarrà per sempre inchiodata nel momento dopo lo stupro. Il vecchio con la barba mezza strappata rimarrà per sempre nelle grinfie dei suoi torturatori. Il ragazzino con gli occhi scuri, il berretto in testa e le braccia alzate rimarrà per sempre congelato sotto il tiro della pistola. Le rispettabili madri di famiglia grottescamente nude all’aperto in un campo sotto il cielo tremolante saranno per sempre umiliate dal nostro morboso sguardo mentre aspettano in fila di venire uccise. E aspetteranno per sempre, perfettamente consapevoli.

Da questo poetico estratto si evince il pensiero che soggiace a tutto il libro: lo sfruttamento museale e lobbystico della tragedia della Shoah ha un qualcosa di morboso, di ingiusto nei confronti delle vittime. Le raccolte fondi, le iniziative interconfessionali, il kitsch di alcune esposizioni, sono qualcosa che ormai ha ben poco a che fare col rispetto dovuto alle vittime. Tutto ciò esiste solo per soddisfare gli appettiti di fama, denaro e riconoscimento sociale di un piccolo gruppo dell’ élite ebraica10 senza scrupoli, che non a caso nel libro è rappresentata da personaggi che si inventano di sana pianta un passato da partigiani, “per sfatare il mito che gli ebrei sono andati come pecore al macello”, un trucco propagandistico, un odioso belletto biografico, che non viene smentito dagli altri reduci solo “per non dare un arma in più a negazionisti e skinhead. Se il capo del museo si è inventato tutto, allora anche le camere a gas potrebbero essere una bufala”.

La Reich vuole dire che arrivati al ventunesimo secolo bisogna lasciare in pace i morti. Questo è l’unico modo per rispettarne la memoria. Il tempo passa, e la Shoah viene affiancata da tutti gli altri olocausti, gli stermini e i genocidi dei decenni seguenti la seconda guerra mondiale, i cui rappresentanti sgomitano per ottenere un posto al sole del riconoscimento storico11.

Per chiarire ulteriormente il quadro, aggiungiamo le parole pronunciate dall’odioso rabbino Monty Pincus, un personaggio spregevole ma intelligentissimo, cui l’autrice mette in bocca uno sfogo che ben sintetizza il messaggio che Tova Reich tenta di esprimere; è una delle scene finali, in cui il rabbino se la prende con l’occupazione del museo di Washington da parte degli universalisti:

Se solo aveste avuto la pazienza di aspettare un paio d’anni, quella preziosa, piccola boutique ebraica all’interno del museo sarebbe stata costretta a differenziare i suoi prodotti a seconda dei diritti umani generali, se avesse voluto sopravvivere. Perchè l’Olocausto è finito, passè , non è più importante. La prospettiva è cambiata. Ma nei suoi giorni migliori, nei giorni in cui contava ancora, niente poteva eguagliare l’Olocausto ebraico e il suo sterminio su scala industriale. Avanti, chi poteva superarlo? Ma la questione, alla fine, è che anche l’Olocausto ebraico, con le sue camere a gas e i suoi forni, i suoi squadroni della morte e i campi di sterminio e tutte le altre attrattive feticiste, sta per essere tolto dalla prima fila per essere sepolto nelle cripte della storia assieme a tutti gli altri massacri, le atrocità e le sofferenze dei secoli passati. L’Olocausto non è più di moda, bambina;il tuo, il mio, il nostro, L’epoca della commemorazione è finita. Il passato è una storia con una fine, semplice, ordinata, falsa.

Solo il silenzio può riscattare i morti dall’ indegna appropriazione indebita compiuta dagli autoproclamatisi “difensori della memoria”.

Il valore del contesto: perchè il libro non è offensivo verso le vittime

Sono diversi i motivi per cui le polemiche non sono divampate come un incendio e per cui la critica è stata positiva in maniera quasi unanime.

Innanzitutto, il fatto che la scrittrice fosse ebrea. Nella quarta di copertina è la prima cosa che viene messa in risalto: “Da una scrittrice ebrea un feroce atto d’accusa …”

Waltz e Mearsheimer12 hanno ricordato come financo lo storico Tony Judt avesse dovuto qualificarsi come ebreo per firmare un articolo a supporto delle loro tesi comparso sul NYT, altrimenti non gli sarebbe stato pubblicato.

Come Luttazzi ha brillantemente spiegato, una semplice battuta (o, in questo caso, un intero libro satirico) muta completamente il significato a seconda di come viene detta, di chi la dice e di chi la ascolta. Questo è il valore del contesto, fondamentale per addentrarsi nella critica di qualsiasi performance satirica.

A riprova della bontà delle tesi luttazziane, ecco uno stralcio della recensione di My Holocaust apparsa sul Los angeles Times, che affronta in pieno l’argomento del contesto: gli ebrei possono ridere più liberamente dei goyim

Mi sono trovata a ridere a squarciagola mentre leggevo il libro al ristorante, attirando l’attenzione di un cameriere. Poi mi sono detta ‘Ehi, io posso ridere di questo libro, visto che sono per metà ebrea!’

Un altro scudo che ha evitato le critiche è l’introduzione al romanzo scritta da Cinthya Ozick, la voce della coscienza dell’ebraismo americano. Un segnale ai lettori per dire: potete fidarvi della buona fede della Reich, lo certifica un autrice che ha scritto varie opere in ricordo delle donne della Shoah, quindi al di sopra di ogni sospetto.

Questi due fattori non sarebbero bastati, però, senza la bravura dell’autrice nel dissacrare senza alcuna pietà gli atteggiamenti, le abitudini, le debolezze e i passi falsi del mondo della borghesia ebraica americana, e, più in generale, i limiti e le contraddizioni della political correctness.

La Reich nella sua satira offre un validissimo esempio di grottesco letterario: al contrario dell’ironia (che lavora per sottrazione), il grottesco agisce per addizione di particolari inverosimili che fanno scattare la risata.

La scelta di affrontare in questo modo un argomento così scottante e così difficile da maneggiare ci è sembrata la più felice: agli abomini della Storia, Tova Reich ha risposto con una fiction ancor più abominevole, che serva da catarsi per tutti quegli esponenti del popolo ebraico che sfruttano i corpi, le ossa, le ceneri, addirittura i capelli appallottolati dei defunti prigionieri di Auschwitz al solo fine di arricchirsi e fare affari.

Oltre ad essere riuscita nella forma, abbiamo visto come quest’opera contenga una profonda riflessione sul significato della Storia e del Ricordo.

In conclusione, possiamo affermare che l’autrice è riuscita a scrivere un libro lacerante, commovente (per le risate e per la crudezza) e per nulla offensivo verso le vere vittime della Shoah.

Il rispetto verso le vittime emerge da sotto una scorza spinosa, sia attraverso la bravura con cui Tova Reich ha scelto le frecce da scagliare col proprio arco satirico, sia per la provata appertenenza dell’autrice allo stesso mondo etnico e culturale descritto in My Holocaust. Se le stesse identiche battute dissacranti presenti nel libro venissero pronunciate da un naziskin o da un negazionista suonerebbero vergognosamente razziste13; ma Tova Reich ha sentito ugualmente l’urgenza di scriverle ed è stata in grado di spingersi oltre i limiti per esprimere uno sdegno morale, un sentimento profondo di rispetto per le ceneri attraverso un kaddish farsesco di cui si sentiva davvero la necessità.

BIBLIOGRAFIA

libri:

T. Reich Il Mio Olocausto, Feltrinelli, Milano 2008.

P. Dogliani, Tra Guerra e pace, Unicopli, Milano 2001.

S. Waltz, J. Mearshmeier, La Israel Lobby e la politica estera Americana, Mondadori, Milano 2007.

T. Segev, Il Settimo Milione, Mondadori, Milano 2001.

I. Zerthal, Israele e la Shoah, Einaudi, Milano 2007.

P. Novick, The Holocaust and American Life, Haughton Mifflin Harcourt, Boston 1999.

articoli:

David Margolick, My Holocaust, recensione uscita sulla New York Times Book Review del 27 Maggio 2007.

M.J. Bukiet, Of Mockery and Memory, sul Washington Post dell’8 Aprile 2007.

C. Mazza Galanti, Il mio Olocausto e la mercificazione della Shoah, su Alias, supplemento culturale del Manifesto,del 19 Aprile 2008.

G. Sanders, The greatest Shoah on Earth, sul Jewish Daily Forward del 23 Marzo 2007.

E. E. Heltzel, Risky Holocaust satire targets Political Correctnes, sul Seattle Times del 20 Aprile 2007.

T. Ison, Holocaust 4 sale, su L.A. Times dell’ 8 Aprile 2007.

S. Pollak, Our Holocausts: Aren’t we all victims, really?, su Jewish Literary Review del 22 Maggio 2007.

Un’ulteriore panoramica sulle recensioni positive a My Holocaust è reperibile sul sito della Russoff Agency al link seguente:

http://www.rusoffagency.com/authors/reich_t/myholocaust/my_holocaust_reviews.htm

Per quanto riguarda il tema della satira e del valore del contesto in cui viene esercitata, fondamentale è stato lo studio del breve saggio Mentana a Elm street di Daniele Luttazzi, consultabile online e presente all’interno del libro La Guerra Civile Fredda, Feltrinelli, Milano 2010.

Note:

1Poche le eccezioni: in Italia, gli unici due vignettisti che si sono sottratti all’unanime coro in difesa dei vignettisti anti-islamici sono stati Vauro Senesi e Pat Carra, adducendo motivazioni articolate. Nel recente caso delle vignette blasfeme pubblicate dal giornale francese Charlie Hebdo, la cui sede è stata devastata dal lancio di molotov, a parte loro due, tutti i disegnatori satirici, da Giorgio Forattini a Stefano Disegni, hanno espresso graficamente solidarietà al giornale francese. Fonte: SATURNO, allegato de Il Fatto Quotidiano dell’ Ottobre 2011.

2Il museo venne infine inaugurato il 22 Aprile 1993. A tal proposito, si vedano le polemiche riguardanti l’inaugurazione del museo riportate in P. Dogliani, Tra Guerra e Pace. Memorie e rappresentazioni dei conflitti e dell’Olocausto nell’Occidente contemporaneo, Unicopli, Milano 2000, pagg. 170 – 175

3Lerman, oltre ad essere stato il presidente dell’istituzione dal 1993 al 2000 fece parte del board di saggi che dal 1979 al 1993 si occuparono della creazione del Museo. Va ricordato soprattutto il fatto che Lerman abbia presieduto la raccolta fondi A campaign to Remember. Le donazioni da lui raccolte sono state la base economica per le acquisizioni e la realizzazione del USHMM.

4Segnatamente, Walter Reich dovette dimettersi dopo una disastro nelle pubbliche relazioni del museo, ossia quando si diffuse la voce di una possibile visita di Yasser Arafat al museo di Washington nel 1994. Bastò questo rumor a scatenare vivacissime reazioni contro la visita di una “assassino del popolo ebraico” all’interno di un museo che ne ricorda le vittime. Sembrerebbe però che la voce fosse stata messa in giro da Lerman, per favorire la cacciata del rivale Reich, marito di Tova, che pagò per tutti. Fonte: G. Sanders The Greatest Shoah on Earth, sul Jewish Daily Forward del 23 Marzo 2007, articolo presente al link seguente:http://www.forward.com/articles/10377/#ixzz1gcfiqCH3

5Wiesel fu tra i principali supervisori della raccolta fondi e della nascita dell’istituzione museale di Washington. Cfr. P. Dogliani, op.cit, pag. 177.

6In seguito agli studi preparatori per questo articolo, ci sembra possibile identificare nel personaggio di Henny Soskis la sopravvissuta realmente esistente Gerda Weissman-Klein. Inoltre, oltre ai personaggi reali, sappiamo che molti dei personaggi messi in scena nel libro erano già comparsi in un altro romanzo della Reich, Mara, uscito nel 2000.

7La lettera di Krakowski è preceduta da una breve introduzione della stessa autrice, che recita: Quella che segue è una lettera che ho scritto in risposta alla recensione del mio romanzo, My Holocaust. La lettera è scritta con le idee di uno dei personaggi minori del romanzo, Lipman Krakowski, che vede sé stesso, tra le altre cose, come un veterano scrittore di lettere ai giornali.. Credo che la recensione fosse del tutto sbagliata e sorprendentemente ad hominem, che non mostrasse nessuna comprensione di cosa sia la fiction o la satira, che fosse notevolmente all’opposto con le molte altre recensioni positive, e che abbia lasciato i lettori con una profonda e immutabilmente distorta impressione del mio libro. Tova Reich. Ricordiamo che lo stesso espediente viene usato spesso da Antonio Ricci, che è solito fare firmare al Gabibbo in persona le risposte alle critiche negative.

8È  probabile che la Reich sia stata influenzata dalle riflessioni della studiosa americana Deborah Lipstadt sul concetto di “vittime perpetue” che rischia di emergere dal museo di Washington. Cfr. P. Dogliani, op. cit.

9Si parla di lei, Nechama Messer, come di una “ereditiera dell’Olocausto” che rifiuta il patrimonio per diventare cattolica, e difendere quello che a suo dire è il nuovo Olocausto, quello dei cristiani.

10Come sostiene Peter Novick, “L’evoluzione dell’Olocausto in USA è stata soprattutto il risultato di una serie di scelte fatte dalla comunità ebraica americana circa la relazione da tenere con la memoria. In pratica, queste scelte sono state fatte dai leader della comunità, e tacitamente ratificate dalla base”. In P. Novick, The Holocaust in American Life, pag. 280.

11In questo campo, ci sembra opportuno sottolineare i tentativi goffi e irrispettosi del presidente francese Sarkozy: prima la grottesca proposta di gemellare i bambini francesi uccisi dal nazismo coi piccoli martiri della Shoah; in questi giorni, la proposta di vietare per legge il negazionismo sul Genocidio Armeno del 1915, una forma di ‘legislazione della storiografia’ con la quale chi scrive si trova in profondo disaccordo.

12J.J.Mearsheimer, S. M. Waltz, La Israel Lobby e la politica estera americana, Mondadori, Milano 2007, pag. 214.

13Cosa che puntualmente si è verificata: l’introduzione e una sintesi del libro, totalmente estraniati dal contesto originale, sono stati pubblicati sul sito neonazista http://www.aaaargh.fr