Evocazioni blues dallo spazio – le notti palermitane di Eugene Chadbourne e Mike Cooper

Eugene Chadbourne

Ogni tanto a Palermo atterrano i dischi volanti. E’ vero. Il mio non è un semplice rimando al pur fondamentale momento di Francesco Tirone in questa mitica scena de Lo Zio di Brooklyn di Ciprì e Maresco:

http://www.youtube.com/watch?v=I8moBt7hjis&feature=related

In effetti, tramite tortuose congiunzioni astrali o grazie a illuminati e svitati promoter, cose come il concerto di Cooper e Chadbourne arrivano proprio ad accadere. Una folgorazione esplosa il 12 giugno 2011 al Museo delle Marionette di Palermo; i corpi astrali di Bukka White, Son House e Memphis Willie B. evocati solo per i pochi presenti. Evocati? Non solo, per fortuna! Anche frustati dalle bacchette di un Fabrizio Spera in trance, diteggiati e modellati dal basso implacabile di Roberto Bellatalla (i due costituivano l’altra metà della band ma soprattutto i guardiani delle complesse agogie rituali); costretti a camminare nel cerchio di fuoco della resofonica di Chadbourne e, come se non bastasse, sventagliati, incatenati, plettrati da Cooper, gran Magus dei Mondi Inferiori e direttore di un ensemble dedito più allo sciamanismo puro che alla semplice improvvisazione.

Mike Cooper

Mi accorgo di aver menzionato i nomi dei musicisti senza aver prima rivelato nulla su di loro: un grave errore, certo, specialmente dal momento che tutti, chi più chi meno, vantano curriculum degni di sommo rispetto. Dalle collaborazioni di Chadbourne con Zorn, Turbonegro, Camper Van Beethoven e cento altri agli oltre quarant’ anni di voli nell’iperuranio di Cooper, artefice di sperimentazioni tanto ardite quanto spesso radicate nel blues rurale e nel soul intimista; dai mille festival di rilievo che hanno visto Spera presente e pulsante ai tentacoli di Bellatalla, sparsi un pò ovunque fra Inghilterra e Italia in più di trent’anni. No, non è certo questa la sede per parlare appropriatamente di tutto ciò che questi quattro stregoni stregati hanno fatto nella loro vita musicale. Ritengo soltanto “giusto” che una testimonianza pur transitoria e parziale come la mia possa inverarsi in forma scritta su qualche centimetro quadro luminoso in uno schermo, tramite qualche algoritmo computerizzato che, pur senz’anima, prova a parlare di quelle di qualcun altro.

Fu un concerto sensazionale, costituito per lo più da jam astratte attorno a qualche standard blues.
Ci furono sezioni liriche, con il solo Cooper lanciato in orazioni funebri stravolte da fiammate di lap steel suonata con oggetti come ventilatori portatili, catene, palloncini; momenti di gioco e completa regressione, momenti di autogratificazione noise e creazione libera di masse elettrodinamiche; oceani di percussività; Chadbourne e la sua struggente “Old Piano” (pubblicata sull’ottimo LP “Roll Over Berlosconi”), arpeggiata con un banjo che a vedersi sembrava aver subito più di un terremoto su più di un palco.
Quattro personalità forti, istrioniche, ma solo di rado invadenti. Solo nei punti giusti, ovvero quando le loro alchimie e permutazioni sonore, all’improvviso, chiamavano vigorosamente l’intervento fisico dei loro corpi posseduti. A questo punto vorrei davvero poter paragonare queste visioni ad altri momenti epocali della musica dal vivo a Palermo. Vorrei, ma ho limiti anagrafici invalicabili, quindi niente paralleli fra Chadbourne e Cooper e Frank Zappa allo stadio della Favorita nel luglio ’82, quando tanti spettatori con la Minchia Tanta fecero di tutto per sentire al meglio l’alieno di Baltimora col sangue di Partinico, ricevendo in cambio solo fumogeni e distruzione; e ancora, niente paragoni fra quelli e i Black Sabbath era Master of Reality al Palermo Pop del 1971; fra quelli e Zorn, fra quelli e gli Amebix, fra quelli e gli Iron Maiden. Ci sono dei limiti, diamine, e forse qualcuno potrebbe perfino ritenere del tutto azzardati i miei collegamenti mancati fra artisti così diversi. E’ il momento di dire la verità: questo blog è fatto apposta per cose del genere. Oh si!


Tornando ai Chadbourne e Cooper (il primo a stelle e strisce, il secondo a Union Jack), mi accorgo sempre più di aver assistito a qualcosa di affine alla truffa. Roba da far rabbrividire l’Adorno delle rifressioni sociologico-musicali seriose, ultrawebernofile e snob. L’Adorno che, infuriato con le pop chart dei primi anni ’60, con la faciloneria degli addetti ai lavori dell’industria pop e anche con il presunto avanguardismo intellettuale dei critici jazz, si arroccava sulle alture concettuali Wagneriane del Todesverkündigung pur di rimarcare la superiorità della musica culta su “schifezze” dell’epoca come (immagino) Elvis e gli Everly Brothers.

Theodor W. Adorno

Truffa, dicevo; fu tale per chiunque si aspettasse delle forme conchiuse dalle loro improvvisazioni. Tra colpi di archetto a chitarre e piatti e sfoghi sardonici urlati, i quattro musicisti quella sera ebbero come unica cornice di movimento l’esaltante forma libera, la catartica possibilità di petare, sussurrare, declamare, graffiare i suoni al di là dei loro limiti. E’ sempre bello ricevere consigli su cosa andare a vedere e sentire, come successe a me e a chi era con me quella sera; ed è ancor più bello trovare, nascosti dietro qualche marionetta, dei musicisti disposti a sanguinare per te con il sorriso sulle labbra.