“La verità è che ci vorrebbe una bella rivoluzione. Ma di quelle fatte bene, con le armi e tutto”.
Questa frase è stata pronunciata – in presenza di testimoni- da un’insulsa signora di mezza età, davanti al bancone di un salumiere. E’ chiaro, però, che quelle parole le avrebbe potute pronunciare chiunque. Ma proprio chiunque.
Invocare una rivoluzione è uno dei tormentoni più trasversali che esistano, nel nostro paese. Non ha importanza che si tratti di dirigenti, operai, impiegati, disoccupati, giovani, vecchi, ricchi, poveri, bianchi, neri, bancari, banchieri, calciatori, barboni, sardi, commercianti: la voglia di rivoluzione sta bene in bocca a chiunque. L’importante, comunque, è che siano gli altri a ribellarsi, e infatti di questo ci occuperemo.
Tralasceremo volutamente ogni discussione sul populismo, sui luoghi comuni, sulla chiacchiera da bar. Meglio sorvolare anche sul fatto che, spesso, a invocare una rivoluzione siano individui a cui tutto converrebbe tranne che trovarsi in un paese in rivolta.
E’ più interessante concentrarsi su un altro aspetto, ovvero su come, date le scarse probabilità che si verifichi un episodio rivoluzionario in Italia (visto anche che nel nostro paese “ non si può fare una rivoluzione perché ci conosciamo tutti”, come diceva qualcuno – Longanesi o Missiroli), ci si attacchi disperatamente alle sollevazioni e alle sommosse popolari che avvengono all’estero.
Non ci riferiamo tanto all’interesse mediatico – quello è inevitabile, trattandosi di fatti di effettiva rilevanza mondiale – quanto alla voglia irrefrenabile di schierarsi idealmente (e tramite social network) al fianco dei ribelli, siano essi ucraini neonazisti, khomeinisti moderati, arabi primaverili, brasiliani contrari agli sprechi. Perfino degli innocui spagnoli indignati vanno bene.
La piazza della capitale che si riempie di gente con le bandiere, gli scontri, la caduta di un regime, le statue abbattute, la fuga all’estero dei dittatori: degli evergreen meritevoli di una busta grande di popcorn.
Gli italiani condividono, e mettono “mi piace”. E cambiano le foto del profilo.
La cosiddetta primavera araba del 2011, per esempio, è stata salutata con un’enfasi degna di un poema epico, trasformato in una farsetta (non certo per il soggetto principale; quello, purtroppo, era tutt’altro che una farsa), con tanto di articoli e autorevolissimi commenti sulla “rivoluzione via twitter”, del “ruolo centrale dei social network”, nella speranza che le onde del Mediterraneo trasportassero i fervori rivoluzionari da una sponda all’altra.
A scanso di equivoci, gentaglia come Ben Ali, Gheddafi e Mubarak meritava ampiamente, a nostro avviso, di essere cacciata.
Ma il punto è un altro: è possibile che degli avvenimenti così rilevanti e così delicati debbano essere sintetizzati con quattro foto di ragazze con il viso dipinto con i colori nazionali e con articoli, post e tweet mistificanti e superficiali?
Il comportamento degli “osservatori partecipanti” italiani consiste sostanzialmente nel godersi la festa rivoluzionaria, ignorandone le conseguenze; un po’ come gli studenti di un noto liceo delle nostre parti, i quali, delusi dalla presunta inokkupabilità della loro scuola, andavano a fare bisboccia nella scuola vicina – quella sì, okkupata – sapendo benissimo che l’indomani non sarebbe toccato a loro raccogliere i cocci della nottata.
Le esultanze per le rivolte nordafricane, ovviamente, non lasciavano spazio alle riflessioni sui possibili scenari futuri. E infatti, con le prime elezioni libere, e con l’instabilità cronica successiva alle rivolte, è arrivata puntuale la delusione per la vittoria elettorale di formazioni politiche vicine all’islamismo radicale.
Poi ci sarebbe pure una serie di attentati terroristici -vedi Egitto – con decine di morti a botta, di cui però a un certo punto non frega più niente a nessuno. Di sicuro però non ci si esalta più. Al massimo, ci si resta quasi male.
Una cosa del tutto simile sta avvenendo rispetto alla crisi ucraina: si gioisce per la caduta di Yanukovich – un farabutto, né più e né meno – e per la liberazione di Yulia Tymoshenko – sulla quale conviene sospendere ogni giudizio. Si può concordare sul fatto che nessuno meriti di stare in carcere per motivi politici.
La Russia di Putin ha successivamente invaso la Crimea, come tutti sanno, “per difendere i cittadini di etnia russa”, numericamente in maggioranza, che vi abita.
Ovviamente, nessuno ha più voglia di esaltarsi per una cosa simile.
Sia chiaro: non vogliamo in alcun modo difendere Yanukovich, né tantomeno il delinquenziale Putin.
Magari la gravità della situazione e dei personaggi in gioco avrebbe richiesto, fin dall’inizio, meno commenti superficiali sui media e social network.
Un minimo di indulgenza andrebbe concesso, però, a chi si esalta per lo scoppiare dei tumulti in casa altrui. La loro frustrazione di fondo va capita, detto senza ironia. Il nostro è, a conti fatti, il paese delle quasi-rivoluzioni, delle rivolte scongiurate all’ultimo momento; è il paese dei Forconi.
E’ lo stesso paese in cui i leghisti, da anni, vaneggiano a proposito di cittadini del nord pronti alla guerra (“se ci incazziamo noi non si sa come va a finire”), di bergamaschi armati richiamati all’ordine da Bossi in persona; è anche il paese in cui un comico – a cui è stata delegata gran parte di questi pruriti eversivi – si vanta di aver salvato l’Italia da Alba Dorata e da ciò che ne sarebbe conseguito, catalizzando il malcontento e trasformandolo in consenso per il suo movimento.
E’ comprensibile, in fondo, che questa incompiutezza eterna generi la voglia di esultare per chi, da qualche parte nel mondo, si sta ribellando sul serio. Magre consolazioni.
A questo punto, non resterebbe che fare una rivoluzione. Ma di quelle fatte bene, con le armi e tutto.