L’omertà può essere “buona”?
Secondo ilfiumeoreto, sì.
Quando essa è al servizio dei deboli o degli amici, l’omertà viene chiamata complicità, ed è considerata lecita.
Quando essa è al servizio dei forti e degli oppressori, viene chiamata omertà e viene disprezzata.
Ma si tratta dello stesso procedimento, identico: occultare dei fatti conosciuti, di fronte a qualcuno che non ne sa niente ma vuole conoscere i fatti, sia esso la polizia o chiunque altro.
Ranajit Guha ha studiato le rivolte contadine in India e in Europa negli ultimi secoli, e ha notato che ci sono dei momenti in cui una comunità decide di non comunicare più col potere, oppressore e legale, e di tenere per sè le informazioni sul contropotere “criminale” (sia esso “mafioso” o “partigiano”, tagliando con l’accetta).
Facciamo due esempi. Qualcuno potrebbe leggerla come una provocazione, ma sono solo due esempi: potremmo farne mille altri.
Chi nascondeva un’ebreo durante le persecuzioni nazifasciste era omertoso verso l’autorità e complice verso chi ospitava.
Il commerciante siciliano che non denuncia il proprio estortore non nasconde nessun rifugiato, nasconde solo sè stesso dalla vendetta del “contropotere” illegale. Entrambi i casi meritano un identico rispetto.*
Pensiamo che l’omertà sia uno strumento che gli organismi sociali adottano per difendere sè stessi, sia a livello individuale sia per quanto riguarda le masse.
Ciò vuol dire che, a seconda delle contingenze storiche, la medesima azione di occultamento di notizie può essere al servizio disinteressato dell’umanità in generale o unicamente al servizio della propria umanità personale.
L’omertà è un’arma fondamentale di ogni gruppo o singolo in lotta per la propria sopravvivenza contro un potere costituito legale, statale o poliziesco.
Noi non diamo giudizi morali, non ne siamo degni; i siciliani che non denunciano i mafiosi sono omertosi; allo stesso modo, i romani che hanno nascosto gli ebrei nel 1945 erano omertosi verso il potere nazifascista. Entrambi operano per la sopravvivenza umana: disinteressata e di gruppo nel secondo caso, interessata e personale (o familiare) nel primo. Nel secondo caso domina il coraggio. Nel primo a dominare è la paura.
L’uomo lotta per la propria sopravvivenza, e lo fa da solo o in gruppo. Ogni tentativo di salvaguardia della vita umana merita rispetto, quando non minaccia la vita altrui in maniera diretta.
I giudizi morali vengono espressi spesso dal caldo di una poltrona o da dietro una scrivania, o durante una conferenza stampa.
Abbiamo deciso di affrontare un tema così delicato per farvi capire che i confini fra lecito e illecito, giusto e sbagliato, legale e illegale sono talmente mutevoli e sottili che dare giudizi morali non è facile.
Noi non pensiamo affatto che “un intero popolo che paga il pizzo è un popolo senza dignità”, come recitava uno dei cavalli di battaglia della campagna di viral marketing pianificata da Addiopizzo qualche anno fa per inserirsi nel mercato mediatico.
Slogan ad effetto, certo, ma totalmente fasullo.
Noi pensiamo che “un intero popolo” paga il pizzo per vivere, o quantomeno per sopravvivere.
La sopravvivenza.
Non è forse questo il massimo della dignità umana?
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* Entrambi rischiano qualcosa: chi nascondeva gli ebrei e veniva scoperto rischiava la morte per mano del potere legale; chi non denuncia il proprio estortore rischia, durante le vaste operazioni anti-mafia, di essere accusato di collusione: pagavi, non denunciavi e ti veniva consentito di lavorare. Colluso. Se denunciavi, tu e la tua famiglia rischiavate ritorsioni.
Il confine tra giusto e sbagliato, omertà e complicità, legale e illegale si confonde e si mescola di caso in caso. E cambia colore a seconda di chi narra gli eventi.
Buongiorno a tutti,
ho letto con attenzione il vostro post e sono convinto della buonafede da cui voi siete mossi nella redazione di questo pezzo. Tuttavia non posso essere completamente d’accordo con le voste affermazioni.
Comprendo bene che la lotta al pizzo viene spesso giudicata da coloro che siedono comodamente altrove, permettendosi di indicare una presunta “soluzione ottimale” ad un problema di cui non hanno minima esperienza. La lotta al racket non è unicamente questione di codardia o collusione con un apparato criminale come quello mafioso. Si tratta di soppesare in pochi attimi quanto possa valere e costare la lotta, la quale porta a mettere a serio repentaglio la propria vita.
Do per assodato l’assenza dello Stato e delle sue istituzioni al sud (salvo rare eccezioni) e questo di certo non può che fungere da deterrente a tutti coloro che volessero denunciare l’apparato mafioso. Non voglio dilungarmi oltre perché penso che siano asserzioni che si denotano per certezza appurata dai fatti e dalla storia recente. (Vedasi “trattative Stato-Mafia”, ovvero Lo Stato c’é. Ma anche no.)
Vi pregherei però di fare attenzione quando riducete tutta la questione legata al “pizzo” al contesto. Cercherò di spiegarmi meglio.
Contingentare un episodio determina in maniera inequivocabile la sua valenza. Un esempio chiaro è quello che fate voi circa la coppia Omertà/complicità. Detto altrimenti e con un altro esempio: “Uccidere è giusto o sbagliato?” Dipende. Se fosse per salvarsi la vita da un aggressore, forse si. Se fosse per accanirsi su di un innocente probabilmente no.
Ciò nonostante non credo sia ragionevole giungere alla vostra conclusione, ammettendo che l’omertà (intesa nel contesto meridionale ostaggio della mafia) non sia un male. I parallelismi da voi addotti credo siano fuorvianti in quanto tengono sì in considerazione il contesto, ma non l’aspetto teleologico e le conseguenze che derivano da una certa azione. Sarà pur vero che vuole salva la vita colui che si piega al pizzo, ma compiendo questa rinuncia gli effetti del proprio operato non sono terminati. Non è tutto qui insomma.
Cedere al ricatto del pizzo significa (volontariamente o involontariamente) alimentare un sistema criminogeno che si nutre della violenza e delle debolezze delle persone. Con ciò non mi si imputi una criminalizzazione di coloro che non hanno la forza di denunciare i mafiosi (hanno la mia compassione in quanto esseri umani posti dinanzi a scelte di estrema difficoltà), vorrei però sostenere con forza e convinzione che non è identico il proteggere un’innocente perseguitato mediante la “complicità” e difendere la propria esistenza con l'”omertà”. Da un parte si difende un innocente contro l’abuso di un potere “legalmente” violento, mettendo a repentaglio la propria vita, difendendone un’altra e con l’aspirazione (consapevolmente o meno) di una società “migliore” (so che dovrei specificare meglio le connotazioni di questo termine, ma lo spazio e il tempo sono quello che sono). Dall’altra si tutela la propria esistenza e di quella dei propri cari (anche se si prolungherà su di essi il condizionamento degli scagnozzi mafiosi) aggravando la situazione in cui versa un’intera comunità. Senza tenere in considerazione aspetti etico/esistenziali legati ad un vivere sotto la perenne spada di Damocle della minaccia mafiosa.
Spero di essere stato chiaro e di aver portato un contributo serio e lucido alla vostra discussione, lungi da me facili moralismi.
Grazie del bellissimo intervento, hai centrato in pieno quello che volevamo dire, e che forse abbiamo espresso in maniera poco chiara.
Premetto che il tuo messaggio è arrivato nel momento in cui ci apprestavamo ad aggiungere un rigo di testo all’articolo:
“Nel secondo caso domina il coraggio. Nel primo a dominare è la paura.”
ora,venendo al tuo messaggio:
“Ciò nonostante non credo sia ragionevole giungere alla vostra conclusione, ammettendo che l’omertà (intesa nel contesto meridionale ostaggio della mafia) non sia un male.”
Effettivamente, ci rendiamo conto che il titolone a effetto possa indurre a equivocare quello che poi esprimiamo nell’incipit:
“L’omertà può essere “buona”?
Secondo ilfiumeoreto, sì.
Quando essa è al servizio dei deboli o degli amici, l’omertà viene chiamata complicità, ed è considerata lecita.
Quando essa è al servizio dei forti e degli oppressori, viene chiamata omertà e viene disprezzata.”
intendiamo dire che esiste un metro per giudicare questa pratica sociale attinente ai rapporti fra il potere e le comunità umane.
E’ ovvio che ognuno, a seconda del proprio metro di giudizio morale, giudicherà le varie forme di omertà che la storia e la cronaca ci mostrano in abbondanza.
abbiamo volutamente scelto due esempi estremi, per denudare l’omertà, per mostrare quanto i meccanismi della mente umana e del comportamento delle masse possano agire ugualmente per spezzare i rapporti di forza di una società malata, o al contrario per perpetuarli. Il meccanismo è lo stesso, i fini sono diversi. Le circostanze storiche, sociali e individuali determinano poi l’accettazione o il rifiuto di questa forma di “silenzio sociale” da parte di ognuno di noi.
poi tu dici:
“vorrei però sostenere con forza e convinzione che non è identico il proteggere un’innocente perseguitato mediante la “complicità” e difendere la propria esistenza con l’ ”omertà”.Da un parte si difende un innocente contro l’abuso di un potere “legalmente” violento, mettendo a repentaglio la propria vita, difendendone un’altra e con l’aspirazione (consapevolmente o meno) di una società “migliore” (so che dovrei specificare meglio le connotazioni di questo termine, ma lo spazio e il tempo sono quello che sono). Dall’altra si tutela la propria esistenza e di quella dei propri cari (anche se si prolungherà su di essi il condizionamento degli scagnozzi mafiosi) aggravando la situazione in cui versa un’intera comunità. Senza tenere in considerazione aspetti etico/esistenziali legati ad un vivere sotto la perenne spada di Damocle della minaccia mafiosa.”
Ci trovi d’accordissimo, è chiaro. Per questo abbiamo aggiunto un’altra discriminante, quella del coraggio e della paura.
L’unica cosa che aggiungerei al tuo discorso riguardo il concetto di “società migliore”:
effettivamente, chi rischiò la propria vita per un ideale, quello dell’uguaglianza fra le razze, o comunque per un sentimento di empatia umana, lo ha fatto in base ai propri sentimenti e alla propria gerarchia valoriale.
Anche chi accetta la sopraffazione mafiosa ha una visione del mondo: esattamente quella del potere. L’interiorizzazione della situazione ambientale produce il silenzio della vittima che condivide il proprio ruolo, ben sapendo che in altre situazioni potrebbe comportarsi allo stesso modo.
Non so se hai visto domenica scorsa la puntata-capolavoro di Iacona a Presa Diretta, intitolata Malaroma.
Sabrina Colaneri, la madre di un ragazzo ucciso per strada a Roma, è un esempio chiarissimo di chi ha una piena concezione di sè, del proprio ambiente e del mondo, e accetta ciò che la circonda. Non lo giudica (e quindi lo accetta e lo perpetua), però lo capisce profondamente.
Un’analisi così lucida ci ha impressionato, mandata in onda il giorno dopo la stesura, di getto, di quest’articolo.
Noi non diamo giudizi su questa donna, apprezziamo il fatto che abbia una weltanschauung ben chiara, e le siamo grati per la sua dolorosa e significativa testimonianza.
Ti ringraziamo davvero per il tuo commento, soprattutto per il fatto che hai capito la buonafede, oltre ad avere fatto notare i punti poco chiari o ambigui di questo post.
Per chiarire ulteriormente: quando diciamo
non intendiamo mettere sullo stesso piano morale le due azioni; vogliamo dire che entrambi sono vittime in partenza; attraverso l’omertà veicolano due sentimenti diversi, rispondono in maniera opposta alla minaccia esterna: in un caso la ribellione coraggiosa, nell’altro l’accettazione silenziosa.
Entrambi partono dallo stato di vittime, quindi hanno il nostro rispetto; entrambi adoperano l’omertà, ma i fini ultimi di questa pratica, come ha detto chiaramente wilmore, sono radicalmente diversi. Lungi da noi non cogliere questa differenza.
Grazie, non c’è di che.
Avete fatto bene a specificare ulteriormente il vostro pensiero in merito.
Quello che penso di poter cogliere dalle vostre parole è una sorta di giustificato rigetto verso le facili sentenze moralistiche di coloro che didascalicamente e paternalisticamente si arrogano il diritto di dire come ci si dovrebbe comportare in certe situazioni, pretendendo di possedere la verità a prescindere. E’ il famoso “Armiamoci e partite…”
Ribellarsi a criminali, spezzare le catene della paura e rispedire al mittente le minacce non è cosa scontata, né da poco. Si teme di perdere la vita, i propri cari. Il branco malavitoso è numeroso e onnipresente, mentre la vittima è sola (sola naturalmente fino al momento dei funerali, quando arriva la carovana dello Stato pronta ad onorare pomposamente i meriti del bon citoyen solo per celare i propri colpevoli fallimenti.
La narrazione del cittadino semplice che riesce a sopraffare il potente boss è purtroppo una rara eccezione, pagata sovente molto cara. Davide non vince contro Golia, anzi è più facile che faccia la fine del protagonista di “A ciascuno il suo” di Sciascia.
Trovo veramente odioso l’atteggiamento di quelle anime belle ed intellettualoidi che con la loro logica d’accatto gridano ai quattro venti “Perché non denunciate la mafia? Vi sta bene così? Allora ne siete miseri complici”.
Provate a nascere in una situazione in cui i diritti fondamentali sanciti dalla Costituzione sono un catalogo di opzioni. Provate ad immergervi in un contesto in cui la tortura fisica e psicologica è il vostro “pane quotidiano”. Provate anche solo per un istante a pensare che una vostra parola potrebbe assicurare un fornitura gratis di piombo a vostra moglie. Una volta fatto questo, se ne può riparlare.
Ribadisco dunque quanto da voi detto poco sopra: rispetto per le vittime, sempre.
E sostegno incondizionato a quelle persone che gettano la loro vita in pasto a questo presente sciagurato per fare di noi esseri liberi e non liberti. E che il loro sacrificio non sia vano.
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